Il presente lavoro è dedicato all’analisi della manifestazione più grave dell’odio misogino verso una donna, l’uccisione di una donna in quanto tale, che come la sociologa americana Liz Kelly (1987), evidenzia è la lunga fine di un continuum di violenza, concetto questo ripreso anche dall’ L’OMS in Understanding and addressing violence against Women: Femicide (2012) che lo colloca infatti nella più ampia cornice di quella che viene definita violenza di genere.
La matrice culturale a cui voglio dare risalto e in cui colloco questa breve opera è quella della seconda ondata del femminismo spostando però il focus dal paradigma di stampo liberale dell’uguaglianza (di diritto, di trattamento, ecc) a quello più radicale legato ai concetti di dominio/subordinazione (R. Mestre 2006).
In tale ottica il femminicidio riguarda ogni forma di violenza fisica o psicologica commessa a danno di una donna in quanto tale che come osserva Antonella Merli (2013) in “Violenza di genere e femminicidio”, “evoca –grazie al suo valore simbolico – l’idea del dominio maschile sulla donna, richiama l’essenza stessa (o è lo specchio) di una sottocultura patriarcale legata ai tradizionali rapporti gerarchici ed affettivi sussistenti nel contesto familiare, in cui vigono norme, costumi, tradizioni, credenze, abitudini.. da cui nasce la violenza nelle relazioni di coppia. Si tratta di un termine e concetto denso di significato politico oltreché criminologico, che sottintende una motivazione (o giustificazione) della violenza sulle donne che mette in evidenza la criticità di un modello socioculturale ormai arcaico che contribuisce a relegare la donna in quanto donna ad un ruolo subordinato, cioè al ruolo coperto socialmente in ragione del genere di appartenenza (sposa, madre, figlia, sorella..) negandole di fatto, parità di diritti con l’uomo e sottovalutando o minimizzando, gli atti di violenza perpetuati nei suoi confronti, reclamandone una sostanziale impunità sociale”.
Nel primo capitolo affronterò il percorso complesso che ha portato all’emergere della problematica della violenza di genere e delle sue estreme conseguenze, punterò a evidenziare come tutto questo sia frutto anche della mobilitazione sociale e dell’attività politica di gruppi di studiose e ricercatrici che si rifanno al modello femminista; analizzando le statistiche del fenomeno punterò a esplorare le dinamiche delle rappresentazioni sociali e dei media evidenziandone gli aspetti di criticità, l’ultima parte del capitolo sarà dedicata all’evoluzione giurisprudenziale con un focus anche sul caso italiano.
Il secondo capitolo sarà dedicato allo studio della violenza di genere in quanto matrice del femminicidio e alla ricerca delle possibili interpretazioni sociali e psicologiche.
anno 2018
Lin Suqing (4 gennaio)2. Sara Pasqual (10 gennaio)3. Esther Eghianruwa (20 gennaio)4. Arietta Mata (21 gennaio)5. Anna Carusone (22 gennaio)6. Nunzia Maiorano (22 gennaio)7. Chen Aizhu (24 gennaio)8. Pamela Mastropietro (31 gennaio) 9. Jessica Valentina Faoro (7 febbraio)
10. Francesca Citi (13 febbraio)11. Federica Ventura (14 febbraio)12. Azka Riaz (24 febbraio)
13 e 14. Alessia e Martina (28 febbraio)15.Claudia Priami (4 marzo) 16. Fortunata Fortugno (16 marzo) 17. Laura Petrolito (18 marzo) 18. Immacolata Villani (19 marzo)19. Leila Gakhirovan (2 aprile) 20. Roberta Felici (4 aprile) 21. Fulvia MariaBaroni (6 aprile) 22. Angela Jenny Reyes Coello (7 aprile) 23. Valeria Bufo (19 aprile) 24. Monika Gruber (20 aprile) 25. N.M. (22 aprile)
26. Antonietta Ciancio (28 aprile)27. Maria Clara Cornelli (7 maggio) 28. Maryna Novozhylova (8 maggio) 29. Marina Angrilli (20 maggio) 30. Ludovica Filippone (20 maggio) 31. Silvana Marchionni (21 maggio) 32.Elisa Amato (26 maggio) 33. Elca Tereziu (27 maggio) 34. Fjoralba Nonaj (30 maggio) 35. Allou Suad (3 giugno) 36. Sorina Monea (4 giugno) 37. Fernanda Paoletti (4 giugno) 38. Sara Luciani (8 giugno) 39. Mora Alvarez Alexandra del Rocio (10 giugno)
40. Anxhela Meçani (10 giugno) 41. Donatella Briosi (13 giugno) 42. Nicoleta Loredana Grigoras (22 giugno)43. Roberta Perosino (26 giugno) 44. Ines Sandra Augusta Sachez (5 luglio)
45. Paola Sechi (6 luglio) 46. Maria Carmela Isgrò (6 luglio 47. Paola Sechi (6 luglio)
48. Adele Crosetto (12 luglio) 49. Sabrina Malipiero (14 luglio) 50. Teresa Russo (16 luglio)
51. Zeneb Badid (22 luglio) 52. Immacolata Stabile (22 luglio) 53. Giustina (24 luglio)
54. Manuela Bailo (29 luglio) 54. Maria Dolores Della Bella (5 agosto) 56. Elena Panetta (6 agosto)
57.Maila Beccarello (8 agosto) 58. Rita Pissarotti (14 agosto) 59. Rosa Maria Schiaffino (27 agosto) 60. Tamiya o Tanja Dugalic (7 settembre) 61. Paola Bosa (7 settembre)
62. Angela Ferrara (15 settembre) 63. Maria Grazia Innocenti (16 settembre)
64. Alexandra Riffeser (24 settembre) 65 Ragazza rumena (26 settembre) 66. Loredana Lopiano (27 settembre) 67. Paola Adiutori (28 settembre) 68.Luisa Valli (29 settembre) 69. Dina Mapelli (1 ottobre) TO BE CONTINUED….. ?
Ciao mamma,
E’ passato un anno…
Tanto, poco… Dipende…
So soltanto che a volte il tempo non serve a guarire le ferite, almeno non questo tipo di ferite.
E’ stato un anno intenso, che mi ha fatto scoprire nuove realtà’, nuove amicizie e soprattutto mi ha fatto scoprire di avere una forza incredibile, la tua stessa forza che sono sicura mi hai voluto lasciare.
Non so se sono ancora pronta a guardare con fiducia il futuro, ma di certo sono pronta a guardare avanti e non dimenticare.
Mi manchi, come e più’ del primo giorno..
Fede (Lettera di Federica a mamma Loredana)
CAPITOLO 1: PROCESSO DI SIGNIFICAZIONE STORICO-SOCIALE E GIURIDICO DEL FEMMINICIDIO
L’importanza di chiamare le cose con il loro nome. Negli ultimi decenni il tema della violenza assassina contro le donne ha registrato un interesse globale raggiungendo molteplici ambiti della società, da quelli accademici e di ricerca a quelli giuridici e psicologici.
Sono stati prodotti una mole di lavori molto interessanti ma estremamente eterogenei che hanno reso a volte confusa e complessa una adeguata e dettagliata analisi di questo complesso fenomeno.
Il femminismo degli anni ’60 e ’70 insieme ad un clima sociale di fermento e bisogno di cambiamento hanno prodotto meritorie ed importantissime battaglie, per citarne alcune:
– Legge 22 maggio 1978, n. 194
“Norme per la tute la sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”
– Legge 1 dicembre 1970, n. 898
“Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”
-Legge n°151 del 19 maggio 1975
“Riforma del diritto di famiglia”
stimolando la società ad una maggiore presa di posizione critica sull’esistente e al rispetto dei diritti e della salute riproduttiva e sessuale delle donne.
Tuttavia seppure in quegli anni si soleva sentire dire che “anche il personale è politico” il tema della violenza sessista, fenomeno questo che va ricordato riguarda moltissime persone, non è stato considerato centrale nelle battaglie per l’emancipazione.
Persino un grave reato come la violenza sessuale infatti ha dovuto aspettare il 1996 per uscire dalle maglie della moralità pubblica e del buon costume e diventare reato contro la persona.
E’ stato merito innegabile della seconda ondata del femminismo (quello che si è sviluppato a partire dagli anni 70-80) che ha creato l’humus culturale che ha permesso l’affacciarsi sulla scena mondiale di questi temi (S. Brownmiller 1990, R. Dobash 1983, C. MacKinnon 1987, J. Radford, E. Stanco 1996, S. Jackson, J. Jones 1998).
Secondo questa corrente la violenza di genere non è un eccezione episodica o emergenza momentanea, è invece fenomeno strutturale all’interno della società coinvolgendola in tutte le sue ramificazioni, come evidenziato recentemente dal movimento “Non Una di Meno” che in Italia ne ha ripreso con forza le istanze producendo il “Piano Femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere” (2017)[1] “E’ espressione diretta dell’oppressione che risponde al nome di patriarcato.. manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi… è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono relegate in una posizione subordinata”.
Uno degli elementi di complessità è stato per lungo la tempo la mancanza di parole per spiegare i concetti e renderli utili per l’analisi sociale e la pratica politica.
La ricercatrice che ha posto seriamente in essere la questione è la sociologa e criminologa Diana Russell che nel 1976 in un meeting a Bruxelles sui crimini contro le donne al quale parteciparono oltre 2000 donne provenienti da quaranta paesi del mondo, diffuse per prima il termine di “Femicidio” (termine non creato da lei ma ripreso dalla scrittrice Carol Orlock) per evidenziare “the killing of females by males because they are female” (Russell 2011).
Come riportato da Barbara Spinelli (2008) “Diana Russell capisce immediatamente che quel termine avrebbe potuto squarciare il velo dell’oscurità che parole asessuate come omicidio o strage impongono”.
Con questo termine quindi l’autrice vuole sottolineare l’uccisone di una donna in quanto donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, o per senso di possesso (Caputi e Russell 1990) evidenziando quanto il fenomeno non sia affatto nuovo ma abbia radici antiche ricordando ad esempio l’uccisone di donne per motivi di stregoneria, le uccise per una malfatta interpretazione dell’onore o le bambine morte per infanticidio.
Riprendendo anche l’importante espressione della studiosa Liz Kelly (1987) sottolinea l’aspetto non occasionale o episodico della violenza, ma lo concepisce all’interno di un continuum, come la sua parte più estrema.
(Tale ricerca ebbe anche un precedente storico, i noti fatti di Montreal del 6 dicembre 1989, dove uno studente respinto all’ammissione dalla facoltà di Ingegneria uccise 14 studentesse, definendole femministe e ritenedole responsabili di aver occupato posti tradizionalmente riservati agli studenti maschi).
Il termine femminicidio nell’accezione della Russell di Femmicidio, arriva però al dibattito internazionale quando con La collega J. Radford nel 1992 pubblica “Femicide: The Politics of Woman Killing”.
In questa opera il femminicidio è definito come uccisone misogina di una donna, se ne evidenzia la natura di categoria politica denunciandone però la negazione da parte delle società patriarcali.
Se ne descrivono le molteplici forme, razzista, domestico, coniugale, lesbofobico, di massa arricchendo quindi il dibattito di categorie di analisi criminologica e cominciando a mettere in luce anche il ruolo delle autorità, dello Stato e delle sue istituzioni in quanto inadempienti nel considerare i diritti delle donne.
Gli studi della Russell si sono poi ampliati e il termine femmicidio ha avuto la sua definizione più approfondita nel 2001, quando con la collega R. Harmes arricchisce il concetto fino ad includere tutte le pratiche sessiste che hanno come conseguenza l’uccisione di una donna, in tale prospettiva poi cambiando i termini donna e uomo in maschi e femmine includendo di fatto anche le ragazze e bambine e dunque i giovani maschi responsabili dei delitti.
Profondamente influenzata dalle opere della Russell un’altra importante ricercatrice ne ha ripreso le concezioni approfondendole ulteriormente, l’antropologa femminista messicana Marcela Lagarde.
L’interesse della Lagarde verso il problema della violenza omicida contro le donne prende lo spunto da un altro storico, famosissimo e drammatico fatto di cronaca, il caso di Ciudad Juárez, caso questo che ha assunto un importanza enorme nella diffusione del dibattito internazionale sulla violenza di genere, e che ha mobilitato studiosi ed esperti di eterogenea formazione (politologi, criminologi, giuristi, sociologi), nonché movimenti della società civile in primo luogo i movimenti femministi messicani e in seguito anche tribunali nazionali e internzionali, è stato ovviamente anche oggetto di interesse dei media e del cinema, un famoso film prodotto negli Stati Uniti, Bordertown e interpretato da Jennifer Lopez e Antonio Banderas ne ricorda la storia.
I fatti raccontano come nella cittadina messicana vi fu un aumento preoccupante di uccisioni di donne con una modalità criminale e violenta fatta di stupri sequestri e sevizie e di come queste fossero poi abbandonate e fatte ritrovare quasi come oggetti senza nessun valore,[2] all’interno di un clima di un generale disinteresse e disinvestimento da parte delle autorità statali deputate alle indagini e alla repressione del fenomeno.
- Segato (2011) definisce la modalità degli assassini come “quasi burocratica” ad evidenziarne lo schema ricorrente e ripetuto.
L’antropologa messicana Lagarde (anno) riprende dunque il termine femmicidio della Russell ampliandolo e specificando come nella sua analisi il concetto comprenda non solo l’odio misogino verso una donna che porta al suo assassinio ma anche tutte quelle forme di violenza, sopraffazione, non rispetto dei diritti umani e sottomissione con le quali le donne sovente si trovano a dover combattere in funzione del loro essere donne in quanto tali.
Non era necessario dunque che la violenza portasse all’eliminazione fisica della persona, ne’ il movente misogino, la Lagarde (2006) ne ha arricchito la comprensione ad un dato molto più generale di violenza sulle donne, in quanto violazione dei loro diritti umani fondamentali.
Un dato di rivendicazione politica importante è l’aspetto di denuncia di questi crimini che sono ipocritamente definiti illegali ma di fatto legittimati dal disinteresse e dall’impunità delle autorità statali, l’autrice parla infatti di ‘violenza istituzionale’, violenza quindi che ostacola le donne nel godimento dei loro diritti fondamentali, nella loro autodeterminazione e dignità di esistere ed essere libere dalla violenza.
Anche in Italia il contributo e il dibattito sul tema si è fatto acceso specialmente negli ultimi tempi, ma la diffusone del termine femminicidio è avvenuta solo a partire dal 2008 con il contributo fondamentale della giurista Spinelli (op. cit) che sulla falsa riga dell’autrice messicana concepisce il femminicidio non come semplice uccisione di donne in quanto tali, ma come contenitore ideologico di tutte quelle forme di discriminazione e violenza che attaccano le donne pregiudicandone la salute, la libertà, la vita e le scelte e che come fine ultimo si pongono l’assoggettamento del femminile allo stato di cose esistenti.
In una interessante intervista al Manifesto (2008) osserva infatti l’autrice che: “il femminicidio riguarda ogni forma di violenza fisica o psicologica commessa contro una donna in quanto tale quando rifiuta di aderire al ruolo che la società patriarcale vorrebbe imporle (moglie, madre, oggetto sessuale). Non implica solo l’atto commesso da un singolo uomo, ma tutti quelli attuati dalla cultura patriarcale assunta a modello e riferimento dai media”.
Tuttavia la ricchezza terminologica e di significato di rivendicazione politica nel linguaggio comune non viene rappresentata e il lemma comprende attualmente solo l’uccisione di una donna, lasciando agli ambienti politici più sensibili o quelli accademici il compito di far progredire la coscienza civile verso la comprensione più complessa di un fenomeno così grave.
- Dati del fenomeno
Partiamo da una premessa molto chiara e cioè che la violenza sulle donne è dato globale e trasversale tanto nel mondo civilizzato che nelle realtà più povere.
Dagli aborti selettivi in Cina, alle gravissime violenze subite dalle donne africane da parte di barbariche tradizioni, dalle guerre dichiarate da movimenti religiosi estremisti che vedono nella donna non un essere umano ma un soggetto da tenere in stato di subordinazione e mancanza di autonomia agli assassini nella moderna ed efficiente Europa, si può dire dunque che la violenza sulle donne non ha nazione ne’religione, non appartiene ne’ al mondo civilizzato ne’ a quello arretrato, è dato globale che ha residenza ovunque nel pianeta.
La raccolta e l’analisi dei dati sul femminicidio è scarsa e molto eterogenea, vi sono esperienze virtuose come in Canada[3] e negli USA, ma in linea generale osserviamo come questi dati siano di difficile reperimento e di complessa analisi dato che a volte vengono acquisiti da fonti diversissime tra loro e spesso neanche armonizzati (es. polizia, tribuanali, ospedali).
La conseguenza ovvia è che il fenomeno nonostante l’allarme sociale che produce sia tendenzialmente sommerso a riprova di quanto sia carente nelle istituzioni e nella società una vera consapevolezza del problema e un suo franco riconoscimento politico e sociale.
Un autorevole fonte di dati che è necessario citare a livello internazionale è lo studio mondiale sull’Omicidio elaborato dalle Nazioni Unite dall’unità contro la Droga e il Crimine (UNODC) a Vienna nel 2011, che contiene un capitolo sugli omicidi di donne all’interno di relazioni di intimità sia familiari che di coppia.
Questo studio risulta importante sia per l’indiscussa rilevanza dell’estensore sia per l’ampiezza dei dati che raccoglie (207 Paesi).
Si evidenzia che l’omicidio è un reato al maschile risultando gli uomini in maggioranza sia a commetterlo che a subirlo, (4 vittime su 5 sono maschi, 95% maschi responsabili).
La tendenza che si osserva dai dati è la disomogeneità della violenza nei vari continenti dovuta al fenomeno della criminalità organizzata; nello studio si evidenzia che nei paesi dove questa è più bassa il numero di donne uccise sul totale risulta molto più alta.
I dati UNODC mettono in luce che delle 93000 donne uccise nel 2012, ben 43600 (circa il 47%) hanno perso la vita per mano dei loro familiari o del partner (i maschi solo il 6%).
Nei 18 Paesi in cui è stato possibile suddividere i dati delle uccisioni tra i partner e i famiglia il dato è impressionante, il 79% a favore dei partner.
In sostanza dunque mentre gli omicidi a causa della criminalità oltre ad avere un andamento irregolare nel mondo tendono generalmente a decrescere, quelli delle donne tendono a rimanere costanti e ben oltre due terzi delle vittime di omicidio nel contesto familiare sono donne, con una spiccata chiamata in causa dei partner.
Questo fa si che con un’amara ironia si possa dire che il posto più pericoloso per una donna è la propria casa.
Tra le pubblicazioni italiane è possibile citare la ricerca EURES[4], i cui dati sembrano confermare i già descritti andamenti osservati studio precedente.
Secondo questa ricerca, dal triennio 1992-1994 al triennio 2004-2006 la percentuale di donne uccise passa dal 15% al 26%, con un aumento di ben 11 punti.
Si evidenzia anche qui come l’ambito più pericoloso sia quello degli omicidi in famiglia dove ben il 70% delle vittime risulta di sesso femminile.
Il rapporto dedica poi un approfondimento all’omicidio di coppia, come sottocategoria dell’omicidio in famiglia evidenziando come nel periodo di tempo considerato (anno 2008) autore e vittima fossero legati da rapporto di coniugio nel 52,4% dei casi (43 omicidi); al di fuori del matrimonio (dato che riguarda circa 16% di uccisioni), la convivenza invece ricorre nel 63% dei casi.
Significativo il dato dei delitti avvenuti dopo la fine della relazione di coppia che rappresenta ben il 23,2% del totale.
Un’altra fonte di dati importante, per la mole di pubblicazioni che produce e l’attenzione sociale e politica che dedica al fenomeno proviene dalle ricerche prodotte della casa delle donne di Bologna[5].
Come evidenziato nelle pubblicazioni prodotte (2016) “I dati sui femicidi[6] in Italia ci consegnano ancora una situazione drammatica. Nel 2016 sono state 121 le donne uccise. In tre casi su quattro i delitti si sono consumati in ambito familiare. Secondo recenti dati Istat nel 2017 si consuma un delitto ogni tre giorni. Nella consapevolezza che sono ancora tante le cose da fare, a partire da un cambio di marcia a livello culturale, lavorando in particolare sulle giovani generazioni” .
Nella Casa delle Donne di Bologna, a partire dal 2005 si è costituito un gruppo di lavoro sul Femicidio con lo scopo di monitorarne l’andamento e informare e sensibilizzare la cittadinanza.
La fonte dei dati in mancanza di statistiche ufficiali (e a causa della difficoltà di consultazione degli archivi delle forze dell’ordine) è costituita dalle agenzie di stampa, i quotidiani locali e nazionali sia in forma cartacea che digitale.
Nel presente lavoro prendo in considerazione le statistiche direttamente dalla CdDB riportandole dunque dalla fonte .[7]
“La tabella sottostante riporta l’andamento dei femicidi dal 2005, anno in cui abbiamo iniziato la nostra indagine, fino al 2016. Il numero dei femmicidi nel 2016 è 121, un numero di casi leggermente superiore a quello dei due anni precedenti, pur restando nella media annuale che abbiamo riscontrato in 12 anni di indagine sul fenomeno. È importante sottolineare che i casi raccolti dalla presente ricerca si basano sull’analisi di quanto riportato dalle testate giornalistiche, sia locali che nazionali, che non sempre danno rilevanza a tutti i femicidi, deter- minando una raccolta dei dati necessariamente sottostimata. Non è possibile stabilire se il leggero aumento dei casi rilevati sia da imputare ad un effettivo inasprimento dei femicidi, o ad una accresciuta attenzione e sensibilizzazione sul fenomeno da parte della stampa e dell’opinione pubblica. Ricordiamo che i dati del Ministero dell’Interno del 2016 parlano di 149 donne uccise, di cui si considerano 111 i femminicidi, ma fanno esclusivo riferimento ai femicidi nell’ambito delle relazioni familiari/affettive.
- Numero di donne uccise (2005-2016)
Anni | Numero totale femicidi |
Numero donne uccise 2016 | 121 |
Numero donne uccise 2015 | 117 |
Numero donne uccise 2014 | 115 |
Numero donne uccise 2013 | 134 |
Numero donne uccise 2012 | 126 |
Numero donne uccise 2011 | 130 |
Numero donne uccise 2010 | 129 |
Numero donne uccise 2009 | 121 |
Numero donne uccise 2008 | 113 |
Numero donne uccise 2007 | 103 |
Numero donne uccise 2006 | 102 |
Numero donne uccise 2005 | 84 |
TOTALE | 1395 |
La Tabella 2, conferma la chiara prevalenza di donne italiane fra le vittime di femicidio, in linea con l’andamento degli ultimi anni. Nel 2016 sono 85 le donne italiane uccise e 32 le donne di nazionalità straniera (più 4 di nazionalità non determinata). Fra le donne di nazionalità straniera troviamo: 21 donne provenienti dall’Est Europa, 4 dall’America Latina, 4 dall’Africa, 1 dall’Asia, 1 dall’India, 1 dal Nord America.
Tabella N.2 – Nazionalità delle vittime Anno 2016
Nazionalità | Numero assoluto | % |
Italiana | 85 | 70,24 % |
N.d. | 4 | 3,30 % |
Straniera | 32 | 26,44% |
TOTALE | 121 |
Analogamente ai dati rilevati alla nazionalità delle vittime, troviamo una netta prevalenza di autori di femicidio di nazionalità italiana. Nel 2016 gli autori di nazionalità italiana sono stati 88, quelli di nazionalità straniera 20.
Tab 3 – Nazionalità dell’autore del femicidio 2016
Nazionalità | Numero assoluto | % |
Italiana | 88 | 70,96 % |
N.d. | 16 | 12,90 % |
Straniera | 20 | 16,12 % |
TOTALE | 124* |
(Similmente, 91 italiani e 21 stranieri nel 2015, 82 italiani e 20 stranieri nel 2014. A differenza delle vittime, per la maggior parte certe, aumenta il dato non determinato per gli autori, nel 2016 il 13% degli autori dei femicidi resta incerto. Dal 2010 ad oggi, seppure con oscillazioni, rimane alta la percentuale di autori ignoti al momento in cui chiudiamo questa ricerca. Nel 2015 il 4.2% resta ignoto, l’11,3% nel 2014, il 10% nel 2013, il 16% nel 2012. Rispetto al 2015 si può riscontrare un leggero calo della percentuale delle donne italiane vittime di femicidio. È invece aumentata la percentuale di donne straniere, in particolare quelle provenienti dall’Est Europa).
I dati acquisiti nel 2016 dimostrano come il 60% degli autori di femicidio siano partner della donna, sia attuali (45,16%) che ex (15,32%), confermando quanto rilevato dalla nostra indagine dal 2005 ad oggi. Nel 2015 la percentuale era infatti il 65,81%, nel 2014 il 70%, nel 2013 il 58%. Dall’analisi di tale dato, risulta evidente la specifica connotazione di questi delitti compiuti in ragione del genere della vittima. Tab 4. Relazione Vittima/Carnefice 2016
Tipo relazione | Numero assoluto | % |
Partner attuale | 56 | 45,16 % |
Partner ex | 19 | 15,32 % |
Altro parente | 8 | 6,45 % |
Cliente | 4 | 3,22 % |
Collega/conoscente/ vicino di casa | 10 | 8,06 % |
Sconosciuto | 1 | 0,80 % |
Figlio | 9 | 7,25 % |
Ex-studente | 1 | 0,80 % |
Cognata della vittima | 1 | 0,80 % |
Amante dell’autore del femicidio | 2 | 1,61 % |
N.d. | 13 | 10,48 % |
TOTALE | 124* |
Tab. 5 Età della vittima 2016
Fasce d’età | Numero assoluto | % |
<18 | 1 | 0,82 % |
19-25 | 5 | 4,13 % |
26-35 | 21 | 17,35 % |
36-45 | 29 | 23,96 % |
46-60 | 29 | 23,96 % |
61-75 | 20 | 16,52 % |
>75 | 13 | 10,74 % |
N.d. | 3 | 2,47 % |
TOTALE | 121 |
Dalla Tabella 5 si può rilevare come la più ampia concentrazione di femicidi sia compresa nella fascia d’età tra i 36 e i 60 anni. Le fasce d’età non ricoprono tuttavia un dato rilevante, in quanto tutte le donne sono a rischio in qualsiasi età.
Analogamente all’età delle vittime, anche per gli autori la fascia d’età con la percentuale più alta è quella compresa fra i 46 e i 60 anni, seguita da vicino da fasce d’età che vanno dai 26 ai 45 anni.
Tab. 6 Età degli autori del femicidio
Fasce d’età | Numero assoluto | % |
<18 | 1 | 0,80 % |
19-25 | 7 | 5,64 % |
26-35 | 17 | 13,70 % |
36-45 | 20 | 16,12 % |
46-60 | 29 | 23,38 % |
61-75 | 18 | 14,51 % |
>75 | 11 | 8,87 % |
N.d. | 21 | 16,93 % |
TOTALE | 124 |
Tab 7. Luogo Femicidio 2016
Luoghi | Numero assoluto | % |
Casa della coppia | 50 | 41,32 % |
Casa di lei | 34 | 28,09 % |
Casa di lui | 2 | 1,65 % |
Casa di amici | 3 | 2,47 % |
Luogo pubblico | 18 | 14,87 % |
Automobile | 6 | 4,95 % |
Hotel / Casa di riposo | 3 | 2,47 % |
N.d. | 5 | 4,13 % |
TOTALE | 121 |
Anche nel 2016 la casa della coppia risulta essere il luogo in cui si verifica il maggior numero di femicidi, pari al 41,32%. Seppur inferiore rispetto a quello dell’anno precedente questo dato va inglobato anche delle percentuali relative ai femicidi commessi nella casa di lei o di lui, che sono quasi sempre case comuni in cui la coppia di fatto coabitava. I moventi dei femicidi sono stati codificati in alcune categorie e riportati nellaTab 8.
Moventi | Numero assoluto | % |
Fine della relazione | 19 | 15,70 % |
Gelosia / Raptus follia | 11 | 9,09 % |
Litigio / Liti continue | 27 | 22,31 % |
Richieste denaro non accolte / Debiti di gioco | 7 | 5,78 % |
Malattia della donna | 8 | 6,61 % |
Rifiuto sessuale | 3 | 2,47 % |
Vendetta o sadismo | 11 | 9,09 % |
Tratta / Prostituzione | 6 | 4,95 % |
N.d. | 30 | 24,79 % |
|
È necessario specificare che i dati a nostra disposizione non sono molti, stante che ricaviamo le informazioni dagli articoli di stampa relativi ai fatti rappresentati. Il movente è quasi sempre da ricercare nella relazione: l’uomo uccide la donna che vuole porre fine alla relazione, che ha espresso delle critiche rispetto alle dinamiche di coppia, che lo ha tradito, che è malata, in crisi economica, che non lo ama, che lo ha rifiutato sessualmente, che entra spesso in conflitto e “la situazione è diventata insostenibile” e così via. Le categorie sfociano facilmente l’una nell’altra e riportano alle disparità di genere ereditate dagli stereotipi culturali che modellano gli archetipi del maschile e del femminile. Tutte queste relazioni vedono alla base il mancato riconoscimento e rispetto della parità di genere all’interno del binomio uomo-donna, ragione per cui la ratio del delitto è unica: la donna che prende le distanze dal modello comportamentale socialmente imposto, e che sfugge al controllo della controparte maschile, merita di morire.
I dati corrispondenti alla tabella seguente hanno grande importanza in quanto ci permettono di stilare una sorta di statistica che evidenzia le probabilità con cui un caso avrebbe potuto verificarsi in base alla presenza o meno di violenze precedenti da parte dell’autore. Dei 15 casi che sono stati segnalati, 7 (5,78%) riportavano una denuncia e questo ci dice molto in relazione a ciò che autorità, istituzioni e forze dell’ordine possono fare per prevenire queste morti. Particolarmente allarmante e significativo risulta essere il dato relativo a “precedenti delitti / reati / stalking”: il 5,78% degli autori di femicidio aveva già una condanna alle spalle.
Certo è che in una realtà in cui meno del 10% delle donne denuncia una violenza, queste segnalazioni costituiscono un forte atto di coraggio, ma purtroppo, anche quelle poche denunce forse non sono state ascoltate adeguatamente, altrimenti forse la donna sarebbe ancora viva.
Tab 9. Segnalazioni di precedenti violenze 2016
Precedenti | Numero assoluto | % |
Segnalato | 15 | 12,39 % |
Segnalato con denuncia | 7 | 5,78 % |
Precedenti delitti / reati / stalking | 7 | 5,78 % |
TOTALE Segnalazioni | 29/121 | 23,96 % |
Recentemente, anche Rashida Manjo ((2012) Relatore Speciale dell’ONU sul tema della violenza contro le donne, ha messo l’accento sulla gravità della mancanza in Italia di dati ufficiali sul fenomeno denunciando come il disinteresse verso tali rilevazioni di fatto ostacoli sia la progettazione/implementazione di leggi, politiche e programmi a tutela delle donne che la successiva valutazione di impatto delle misure adottate.
L’autrice ha quindi prodotto una minuziosa relazione evidenziando da una parte lo scarso impegno delle istituzioni italiane “In un contesto sociale patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come crimine persiste la percezione che le risposte dello stato non siano appropriate e sufficienti” ma anche centrando l’attenzione sugli aspetti economici, politici e sociali alla base della violenza e auspicando infine uno sforzo maggiore dell’Italia nell’eliminazione di stereotipi sui ruoli di genere in tutti gli ambiti della vita sociale.
- Rappresentazione sociale e ruolo dei media
Come sappiamo il linguaggio che usiamo non è affatto neutro, ma richiama significati e simboli che costruiscono attivamente la realtà che viviamo, il linguaggio codifica il mondo dunque e influenza il modo in cui lo percepiamo. Tutto questo avviene anche per la tematica all’attenzione di questo scritto, e negli ultimi anni sono state prodotte ricerche che hanno posto al centro del loro interesse proprio a questo fenomeno. Un contributo molto interessante è quello prodotto dalla Bertolo (2011) in “La rappresentazione della violenza contro le donne dall’Europa all’Italia” che considerando il ruolo fondamentale del linguaggio nel combattere la violenza sulle donne, si è posta il problema di osservare attraverso lo studio dei frame comunicativi l’evoluzione delle parole che ‘parlano’ di violenza di genere.
Attraverso l’analisi della scelta dei termini e le statistiche corrispondenti ha scoperto come negli anni considerati (2000-2009) la tematica della violenza sulle donne era considerata ancora in termini molto generici e solo dal 2008 essa si sia colorata di una franca denominazione di genere.
L’autrice sottolinea inoltre come nel corso del tempo si sia andato sempre più definendo il concetto di violenza di genere come prodotto dello squilibrio di potere tra i due sessi nella società.
Il tipo di comunicazione a cui si riferisce la Bertolo però è quella di tipo istituzionale ufficiale che poco ha risonanza nella maggioranza della popolazione al contrario di quello che avviene per il linguaggio espresso dalla stampa e dalla tv, che come vedremo successivamente mostra notevoli tratti di criticità. Il pregevole lavoro di Patrizia Romito nel suo libro “Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori” evidenzia bene i meccanismi alla base della manipolazione delle notizie al fine di nascondere la violenza maschile.
L’autrice parla di una serie di vere e proprie strategie e tattiche di occultamento che influenzano la percezione della realtà:
– Eufemizzazione: prevede la descrizione di un fenomeno in modo sfumato o forviante in modo da ridurne la percezione di gravità, molto interessante come questa tecnica si ritrovi sovente nel linguaggio della guerra dove si parla ad esempio di “danno collaterale” per le incolpevoli vittime civili. Massimi esecutori di questa modalità, i nazisti durante la seconda guerra mondiale con i loro folli progetti di ‘soluzione finale’ alias sterminio di un’intera popolazione!
– Disumanizzazione: la vittima viene spogliata della sua identità e ridotta ad oggetto. Molte ricerche della psicologia sociale hanno dimostrato come sia molto più semplice avere comportamenti crudeli se la vittima è spersonalizzata (si può citare in proposito il famoso esperimento di Zimbardo (1973) alla Standford Univeristy, situazione sperimentale nella quale vennero selezionati degli studenti successivamente distribuiti a caso in 2 gruppi: guardie e detenuti e lasciati liberi di interagire. Tale ricerca dimostrò in modo preoccupante come l’istituzionalizzazione e la deindividualizzazione siano in grado di provocare l’emersione di comportamenti apertamente antisociali anche in soggetti apparentemente normali).
– Colpevolizzazione: l’attribuzione di responsabilità alla vittima è uno dei più potenti meccanismi di copertura e di negazione dell’empatia verso chi subisce comportamenti violenti. Ancora oggi assistiamo a quanto sia duro a morire il pregiudizio che vede la violenza sulle donne come esito per qualcosa che esse devono necessariamente aver fatto. Tale pregiudizio risulta poi d’importanza fondamentale nella prescrizione di comportamenti legati al mantenimento di stereotipi legati al sesso di appartenenza.
– Psicologizzazione: si riferisce all’interpretazione di un fenomeno in termini psicologici facendo emergere patologie o problematiche in assenza di una loro documentazione. Come spesso sentiamo volgarmente dire, il comportamento violento sarebbe attribuibile ad un raptus, a malattia mentale, pazzia, disturbi depressivi. Questa spiegazione si ritrova sovente anche nella riottosità con la quale gli operatori di giustizia si occupano delle denuncie delle donne, minimizzando o svilendo i rischi ai quali sono esposte.
– Distinzione/Separazione: non denunciare come ogni comportamento violento, anche quello psicologico, si situi su un continuum al cui punto più estremo si trova il femmicidio, significa concepire quest’ultimo in termini di estraneità ed eccezionalità rispetto alla realtà sociale. Molte volte le donne uccise avevano denunciato i loro aggressori e i loro maltrattamenti ma questi fatti nella rappresentazione dei media non sarebbero immediatamente collegati alle uccisioni.
Come evidenziato anche dagli studi della Casa delle Donne di Bologna: “Nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione e progetti nell’ambito giornalistico – basti pensare a GIULIA – i titoli degli articoli di giornale così come gli articoli stessi, continuano a presentare la follia, il raptus e la passione esagerata come reali moventi dei delitti, andando a giustificare le azioni dell’autore, che viene automaticamente deresponsabilizzato. La donna a sua volta subisce una doppia vittimizzazione: è in sostanza uccisa due volte, una dall’autore del crimine, l’altra a livello mediatico in quanto si cercano sempre problemi nel suo comportamento, si lascia intendere che è lei che se l’è cercata, che è lei che non ha riconosciuto il pericolo, che è ancora lei che non si è protetta. Va infine specificato che alla voce “vendetta o sadismo” corrispondono quei casi particolarmente violenti in cui si sono verificate sevizie, gravi violenze o maltrattamenti che hanno portato alla morte delle vittime senza un apparente ragione”.
Partendo da questa premessa, nella scrittura di questa breve tesi, il mio interesse si è poi ampliato e sono andata a curiosare direttamente sui titoli dei giornali cercando semplicemente con il motore di ricerca Google le immagini relative alle parole femminicidio/giornali.
Quello che riporto di seguito è una drammatica conferma delle parole delle ricercatrici.
E’ veramente sconfortante il livello di misoginia e disprezzo neanche troppo velati che si osserva in alcuni dei titoli, addirittura scompare la vittima del “povero” Vittorio così gentile e premuroso da uccidere la sua compagna, e come non compiangere il suo gruppo di tennis certo lo shock deve essere tutto loro, e ancora ‘l’ucraina traditrice Maryna’ che scoperta delle sue scappatelle una punizione doveva pur meritare, in quanto donna e magari straniera.
Chissà se l’autore dell’articolo avrebbe scritto lo stesso titolo a parti inverse.
Ma ai confini dell’indegnità morale voglio citare l’articolo dell’assassinio di Antonella, dove l’omicidio viene reso opaco e ‘disarmato’ del suo portato di orrore e morte a causa del ‘lungo abbraccio’ che lo ha provocato, una morte dolce, romantica mentre le sussurrava di amarla.. certo il particolare del coltello stona un po’.. ma il dovere di cronaca sopra a tutto.
Il resto sono le consuete interpretazioni psicologizzanti su raptus e dintorni, colpevolizzanti la vittima, la violenza sulle donne edulcorata, il carnefice scomparso.
- La difesa dei diritti delle donne
Come si è visto i termini Femicidio e Femminicidio hanno riscosso moltissima importanza nel dibattito internazionale, sono diventate nel tempo vere parole d’ordine, categorie giuridico-criminologiche, costrutti scientifici che hanno orientato e sensibilizzato l’opera di giuristi, politici e ricercatori di varie formazioni.
Si è voluto sottolineare che la violenza sulle donne non è dato generico, ma conseguenza, della storica subordinazione del sesso femminile, dell’ingiusta divisione del potere tra i sessi che ne governa la disugaglianza, funzionale al mantenimento di una società patriarcale che se formalmente rivendica una ipocrita uguaglianza di fatto le discrimina ed emargina nei ruoli tradizionali ad esse riservate.
Persino nel momento in cui scrivo si assiste all’ennesimo attacco alla Legge 194 (sempre lei!) legge che come sappiamo in Italia ha dovuto aspettare la ratifica di un Referendum popolare, legge sempre tanto contestata che rappresentò allora però un valido compromesso tra istanze diverse.
Svelandone i retroscena, nell’immaginario popolare è passata come dato che sancisce il diritto delle donne all’autodeterminazione e ad abortire, di fatto invece ne sposa la concezione medica (aborto si ma a certe condizioni), ma il suo portato va bene al di là degli articoli di cui è composta, ed è questo portato simbolico che è costantemente oggetto di attacco e cioè la libertà femminile di disporre del proprio corpo e di una sessualità disgiunta dalla scelta riproduttiva, insomma un insulto (per alcuni) ai doveri legati al proprio genere di appartenenza.
Certo è che è ancora attualissimo il saggio della filosofa Simone De Beauvoir (1949) che nel suo fondamentale “Il secondo sesso” descrive perfettamente l’origine dell’oppressione contenuta nella nozione di genere così come stabilita dalla tradizione.
Un contributo fondamentale portato dalla ricerca sociale sui concetti di femmicidio/femminicidio è stato anche quello di aver chiamato in causa la responsabilità degli Stati quando essi non si adoperano a sufficienza per prevenire e proteggere la libertà e l’integrità fisica delle donne e condannare e perseguitare i colpevoli.
La commissione sui delitti di Ciutad Juarez presieduta dalla Lagarde, la ricercatrice che tanto ha contribuito allo studio del femminicidio, ha chiamato in correità direttamente lo Stato messicano che nel 2009 è stato di fatto condannato dalla Corte Interamenicana per i diritti umani con la storica sentenza di “Campo Algodonero”.
Come sottolinea Barbara Spinelli (2011) “La sentenza di Campo Algodonero, lungi dal costituire un attacco della comunità internazionale allo Stato messicano, rappresenta uno snodo fondamentale del diritto internazionale umanitario nel farsi garante, attraverso i propri meccanismi, del rafforzamento dello Stato di diritto e delle sue istituzioni democratiche, così come dello sviluppo umano nelle società di tali Stati in un’ottica di genere”.
Storicamente il dibattito sulla violenza di genere parte dalla fondamentale dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948 sui diritti umani che nasce alla fine della seconda guerra mondiale sull’onda dell’orrore causato dai campi di sterminio nazisti e dalle folli politiche di Hitler.
Tale dichiarazione proibisce le gravi, ripetute e sistematiche violazioni dei diritti umani in tutti gli Stati indipendentemente dal fatto che gli stessi abbiano aderito alla convenzione stessa, le norme in esso contenute prevedono una descrizione completa dei diritti che devono essere garantiti alle persone, ma al contempo riporta una demarcazione molto importante, il così detto “limite del dominio riservato”.
Tale confine di fatto riduceva i poteri delle Nazioni Unite negli affari interni degli Stati membri con ovvie conseguenze nell’omogeneità dell’applicazione del trattato stessa, in particolare per quanto riguarda le donne.
Per ovviare a tale difficoltà in quegli anni furono costruiti strumenti più rispondenti a un ottica di genere:
– Convenzione dei diritti politici delle donne del 1952
– Convenzione sulla Nazionalità delle donne coniugate 1957
-Convenzione sul consenso al matrimonio, l’età minima e la registrazione del matrimonio 1962,
tentativi senz’altro utili ma che risultarono piuttosto disorganici.
Un ulteriore passo avanti nella difesa dei diritti delle donne è rappresentato dalla ‘Proclamazione del decennio delle donne (1975-1985) e dalla Conferenza di Città del Messico, le cui parole d’ordine vertevano sull’uguaglianza, lo sviluppo e la pace.
Si sottolineava come la donna dovesse essere concepita come partner paritaria, si evidenziava il problema della disuguaglianza e della povertà che più spesso colpisce il sesso femminile e la necessità per gli stati di adottare le misure necessarie per permettere la partecipazione delle donne alla vita sociale e politica e un uguale accesso alle risorse.
Un ulteriore elemento di interesse era la concezione della pace in termini positivi e cioè non come mera assenza di conflitti ma come un processo di progresso, giustizia e reciproco rispetto tra i popoli.
Nessuna esplicita menzione al problema della violenza contro le donne, ma un generico seppur importante richiamo all’inviolabilità del corpo umano come elemento fondativo della sua dignità.
Il primo contributo però che ha rappresentato un cambiamento davvero sostanziale di portata internazionale è la Convezione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne CEDAW (1979).[8]
Nella parte introduttiva della Convenzione si sottolinea che: “
La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention onthe Elimination of all forms of Discrimination Against Women -CEDAW), adottata nel 1979 dall’Assemble agenerale delle Nazioni Unite, è spesso descritta come una carta internazionale dei diritti per le donne. La Convenzione definisce la discriminazione contro le donne come “… ogni distinzione, esclusione o limitazione effettuata sulla base del sesso e che ha l’effetto o lo scopo di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, indipendentemente dal loro stato civile, sulla base della parità dell’uomo e della donna, dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel settore politico ,economico, sociale, culturale, civile, o in ogni altro settore” .Accettando la Convenzione, gli Stati si impegnano ad avviare una serie di misure per porre fine alla discriminazione contro le donne in tutte le forme, tra cui:
di incorporare il principio dell’uguaglianza dell’uomo e della donna nel loro sistema giuridico, abolire tutte le leggi discriminatorie e adottarne di appropriate che vietano la discriminazione contro le donne;
di istituire tribunali e altre istituzioni pubbliche per assicurare l’effettiva protezione delle donne dalla discriminazione; e
di assicurare l’eliminazione di tutti gli atti di discriminazione contro le donne da parte di persone,
organizzazioni o imprese.
La Convenzione fornisce la base per realizzare la parità tra la donna e l’uomo, assicurando pari accesso e pari opportunità alle donne nella vita politica e pubblica – tra cui il diritto di voto e di eleggibilità – così come nei settori dell’istruzione, della salute e dell’occupazione. Gli Stati parti convengono di prendere tutte le misure appropriate, tra cui delle disposizioni legislative e misure temporanee speciali, in modo che le donne possono godere di tutti i loro diritti umani e libertà fondamentali.
La Convenzione è l’unico trattato sui diritti umani che afferma i diritti delle donne in materia di procreazione e punta sulla cultura e la tradizione in quanto forze autorevoli per modellare i ruoli di genere e le relazioni familiari. Essa afferma i diritti delle donne di acquisire, cambiare o conservare la propria nazionalità e la nazionalità dei loro figli. Gli Stati parti convengono inoltre di adottare misure appropriate contro ogni forma di tratta e sfruttamento delle donne”.
Gli articoli principali della Convenzione sono i seguenti:
– Articolo 1. La CEDAW definisce le discriminazioni contro le donne
– Articoli 2 e 3. Obbliga gli Stati ad intraprendere misure concrete per eliminare le discriminazioni contro le donne.
– Articolo 4. Consente misure temporanee di azione positiva.
– Articolo 5. Riconosce il ruolo della cultura e della tradizione, ed invita gli Stati ad eliminare gli stereotipi sessuali.
– Articolo 6. Chiede agli Stati di reprimere tutte le forme di tratta delle donne e sfruttamento della prostituzione.
– Articolo 7. La convenzione affronta le discriminazioni nella politica e nella vita pubblica.-
Articolo 8. Chiede che le donne possano rappresentare il proprio paese nelle organizzazioni e trattative internazionali
– Articolo 9. Si occupa dei diritti di cittadinanza di donne e bambini
– Articolo 10. Obbliga gli Stati ad eliminare le discriminazioni nell’istruzione
– Articolo 11. Riconosce il diritto al lavoro come uno dei diritti umani inalienabili
– Articolo 12. La CEDAW è l’unico trattato internazionale le cui disposizioni riguardano la pianificazione familiare
– Articolo 13. Si occupa delle discriminazioni nella vita economica, sociale e culturale
– Articolo 14. Si occupa, in maniera specifica, di discriminazioni contro le donne delle zone rurali.
– Articolo 15. Garantisce l’uguaglianza di fronte alla legge
– Articolo 16. Il concetto di “uguaglianza di fronte alla legge” comprende le norme sul matrimonio e sul diritto di famiglia
– Articolo 17. Istituisce un comitato di 23 componenti, per imporre e monitorare il rispetto delle norme della Convenzione
– Articolo 18. Gli Stati devono presentare rapporti al Comitato sul proprio impegno per realizzare gli obiettivi della Convenzione.
– Articolo 28. Gli Stati hanno diritto a ratificare la Convenzione, o ad aderirvi, esprimendo alcune riserve. Le riserve non possono essere incompatibili con gli obiettivi e gli scopi della Convenzione.
Come si può osservare c’è un fortissimo richiamo ad una politica del FARE, dove il divieto di discriminazione si associa fortemente al dovere degli Stati di perseguire misure specifiche contro le discriminazioni di genere.
Gli Stati dunque devono adeguare i loro strumenti giuridici, econominci e sociali al principio di uguaglianza, devono astenersi da qualunque forma di discriminazione verso le donne e spingere gli organi di autorità e gli enti pubblici verso tale obbligo.
Particolarmente importante a tale proposito è l’articolo 5 in cui si sancisce il divieto di discriminare sia in termini di diritto che di fatto, aprendo quindi la strada alla eliminazione di tutte quegli stereotipi e rappresentazioni culturali tradizionali che tanto peso hanno avuto e ancora hanno nella discussione attuale sulla violenza di genere.
La Convenzione pone chiaramente quindi per la prima volta particolare accento non solo alle discriminazioni in ambito pubblico ma anche a quelle che avvengono nella sfera domestica, denunciandone la particolare insidiosità, e diffusione in tutte le società e inserendole nell’ambito della matrice concettuale della violazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle donne.
Si noti che neanche la CEDAW parla esplicitamente di violenza contro le donne, ma nella Raccomandazione N. 19 prodotta nel 1992 (decima sessione della riunione del Comitato) la richiama fortemente tra gli oggetti di sua competenza concependola quindi come una forma di grave discriminazione.
La raccomandazione N.19 è quella che ha permesso più delle altre la stigmatizzazione del fenomeno della violenza, evidenziando come tale problema ostacoli il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali sulla base di parità con gli uomini.
Tra le violenze vengono incluse le minacce e le sofferenze prodotte da danni fisici e psicologici, la coercizione e la privazione della libertà personale sia se commesse nell’ambito privato che prodotte da autorità e organizzazioni pubbliche (si stigmatizza dunque anche la violenza nelle carceri e quella prodotta dai conflitti armati, e si richiede allo Stato di perseguire i colpevoli e punirli).
Dal 2007 viene inserito anche lo stupro coniugale, gli omicidi d’onore, il rapimento della sposa, il matrimonio precoce, l’aborto selettivo, la poligamia e le punizioni corporali.
Nonostante o forse a causa del carattere fortemente progressista la CEDAW non è stata ratificata da tutti gli Stati, al momento attuale mancano alla firma Iran, Nauru, Palau, Somalia, Sudan, Tonga e gli Stati Uniti; molti paesi arabi tradizionalisti si sono opposti in quanto la Convenzione si porrebbe contro i principi della legge Islamica, la così detta Sharia, ma il comitato CEDAW ha affermato chiaramente che nessun motivo di ordine religioso o culturale può essere accolto se contrario agli scopi e indicazioni della Convenzione stessa.
Sono seguite negli anni diverse altre importanti conferenze,
– La Conferenza di Vienna del 1993.
– La Conferenza del Cairo del 1992.
– La Conferenza di Pechino del 1995.
– La Conferenza di Pechino +5 del 2000
tutte molto rilevanti finchè anche a livello europeo ci si è dotati di uno strumento fondamentale per la lotta alla violenza di genere, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul. [9]
L’Italia l’ha ratificata nel 2013 ed è diventata vincolante nel 2014, al momento attuale ben 33 membri del Consiglio d’Europa hanno firmato la stessa adesione.[10]
L’importanza di tale strumento risiede nel fatto che:
1) per la prima volta si parla di violenza sulle donne a larghissimo raggio, si stigmatizzano tutte le forme di tale fenomeno e si pone particolare attenzione alla prevenzione e promozione dell’uguaglianza di genere.
2) la Convenzione (come anche la CEDAW del 2011) rappresenta strumento giuridico vincolante.
Come riportato dall’Osservatorio Italiano sui diritti secondo tale Convenzione, gli Stati membri:
– Condannano ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica;
– Riconoscono che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere è un elemento essenziale per prevenire la violenza contro le donne;
– Riconoscono che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali fra i sessi, che ha determinato discriminazioni e impedito la piena emancipazione
– Riconoscono che la violenza contro le donne ha natura strutturale
– Riconoscono che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali attraverso cui le donne si trovano in posizione subordinata
– Riconoscono con preoccupazione che le donne sono esposte spesso alla violenza e in misura superiore agli uomini, tra cui: violenza domestica, molestie sessuali, stupro, matrimonio forzato, delitti d’onore, mutilazioni genitali femminili.
– Riconoscono che tali violenze costituiscono una grave violazione dei diritti umani
– Riconoscono che tali violenza costituiscono il principale ostacolo al raggiungimento della parità dei sessi
– Riconoscono che la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato e che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica
– Aspirano a creare un’Europa libera dalla violenza contro le donne e dalla violenza domestica
Gli obiettivi della Convenzione riguardano le famose 4 P:
- Protezione e la prevenzione delle donne rispetto a ogni forma di violenza
- Perseguimento e l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica, oltre che ogni forma di discriminazione
- Promozione della concreta parità fra i sessi
- e in ultimo la costituzione di Politiche integrate, olistiche e coordinate, senza le quali le misure per eliminare la violenza contro le donne non avrebbero effetto
L’elemento innovativo della Convenzione di Istanbul è che per la prima volta in un trattato internazionale vincolante con obblighi giuridici, si definisce la nozione di genere (Gallego 2015) come “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini;”(Art 3), si richiamano fortemente gli Stati sia perseguire la violenza sulle donne basata sul genere sia ad adottare una prospettiva di genere nei provvedimenti giuridici e si denucncia la necessità di sconfiggere il fenomeno della violenza domestica.
Si evidenzia inoltre, come la violenza di genere, lungi dall’essere un fatto emergenziale rappresenti un fatto strutturale nella stessa società, che quindi permette e nutre un’immagine stereotipata dei ruoli, una cultura discriminatoria e concezioni che sostengono le gerarchie di potere tra i sessi, ponendo le donne in una posizione subordinata nella società.
Particolare attenzione viene riservata poi al ruolo dei ‘media’ che vengono richiamati fortemente ad adottare dei codici di condotta in termini di comunicazione e informazione sulla violenza di genere e ad adottare un linguaggio appropriato (gender-sensitive).
Sicuramente quindi la Convenzione di Istanbul rappresenta uno strumento ampio e ambizioso, di cui però è, e sarà necessario verificare l’attuazione nei vari contesti di ratifica.
- La strada italiana
La Costituzione italiana, nell’articolo 29 a sancisce l’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi, ma come tale uguaglianza sia potuta a lungo convivere con il famigerato codice Rocco di ispirazione fascista rimane veramente un elemento di critica riflessione.
Soltanto nel 1956 la Corte di Cassazione ha eliminato dalle prerogative del ‘pater familias’ lo jus corrigendi (art 571 c.p.) nei confronti della moglie e dei figli e cioè il potere educativo e correttivo comprendente anche la coercizione fisica; soltanto verso la fine degli anni 60 (1969) l’esclusività della punizione dell’adulterio della moglie è stata dichiarata illeggitima dalla Corte Costituzionale (art 559 c.p.); solo nel 1975 si è costituito il nuovo ordinamento del diritto di famiglia che ha visto finalmente il riconoscimento dell’uguaglianza dei coniugi e la condivisione della podestà genitoriale e infine solo nell’anno 1981 (praticamente qualche decennio fa) si sono creati i presupposti per cambiamenti radicali quali:
– abrogazione delle attenuanti per il delitto d’onore (art. 587 c.p.) in cui finalmente si decretava che l’offesa così detta all’onore provocata da una condotta (ovviamente della donna, moglie, madre, figlia) contraria alla morale convenzionale costituissse, provocazione gravissima, fattore giustificante la reazione (violenta) dell’offeso;
– abrogazione del matrimonio ripatore (art. 544 c.p. procedura ai nostri occhi di oggi che ha dell’incredibile) in cui lo stupratore di una ragazza minorenne poteva evitare il carcere e vedere estinto il reato se acconsentiva ad unirsi in matrimonio con la vittima, salvando quindi l’onore della famiglia. E a questo proposito tanta riconoscenza e tanta ammirazione si deve alla giovane Franca Viola che nonostante la pressione del paese, la stigmatizzazione per lo stupro subito, rappresenta ancora oggi un esempio di coraggio e dignità per tutte le donne.[11]
E infine addirittura si è dovuto aspettare il 1996 e circa 20 anni di iter legislativo per l’approvazione della nuova legge sulla violenza sessuale, che spostava il reato dal titolo IX (delitti contro la morale pubblica e il buon costume) al titolo XII dei delitti contro la persona.
Tale legge però nelle a volte “fantasiose” interpretazioni dei giudici, ha prodotto anche esiti giurisprudenziali francamente aberranti che evidenziano come il pregiudizio di genere e un non maturo affrancamento dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali sia difficile a morire.
A titolo di esempio citerò note e discusse sentenze che tanto hanno mobilitato l’opinione pubblica:
Aprile 1994. E’ “arduo ipotizzare” una violenza sessuale fra coniugi in caso di coito orale in quanto la donna “avrebbe potuto in ogni caso facilmente reagire e sottrarsi al compimento dell’atto da lei non voluto”.
Agosto 1997. Se il capufficio dimostra un “sentimento profondo e sincero” nei confronti della segretaria, non può essere accusato di molestie sessuali sul lavoro, anche se la invita a cena e tenta di baciarla.
Gennaio 1998. Le lacrime di una donna violentata possono diventare un elemento che “inchioda” l’uomo che ha abusato di lei e valere come elemento probatorio “idoneo a garantire la sincerità delle dichiarazioni della parte offesa”.
Febbraio 2006. La cassazione decide che una quattordicenne non può aver subito violenza dal proprio patrigno perché non “illibata” e perché – dato che ha avuto delle esperienze – si ritiene in grado di dominare un rapporto del genere.
Le leggi e i provvedimenti più attuali compresa la ratifica della Convenzione di Istanbul hanno provato a segnare una linea di demarcazione molto forte con una giurisdizione armonica ad un modello culturale di tipo patriarcale ma purtroppo tale mentalità continua a manifestare i suoi effetti funesti sia nei comportamenti di alcuni uomini che a volte nelle istituzioni preposte alla lotta del fenomeno.
Recentemente l’Italia ha prodotto la legge 14 Agosto 2013, N. 93 che rappresenta un tentativo però molto eterogeneo e non pienamente riuscito di adattare la propria normativa alla Convenzione di Istanbul e di rispondere alle preoccupazioni e note critiche che il comitato CEDAW ha espresso sulla situazione italiana (necessità di dare priorità all’adozione di misure strutturali per dare alle donne immediata protezione, garanzia di rifugi sicuri e ben finanziati, gratuito patrocinio, assitenza psico-sociale, risarcimento e misure di prevenzione).
Tra le misure proposte si osserva l’implementazione di una serie di aggravanti (per la violenza assistita, violenza su donne in stato di gravidanza e sulle persone con cui si intrattiene una relazione sentimentale, ecc) e di una serie di misure di controllo e di prevenzione, tra le quali l’aumento di pena per il reato di minacce, l’ampliamento dell’applicazione delle aggravanti per lo stalking, le comunicazioni di sostituzione e revoca delle misure cautelari alla persona offesa.
Tali misure se da un alto hanno trovato un cauto consenso nella collettività, mostrano però chiaramente la difficoltà da parte dell’Italia di recepire le indicazioni, ma soprattutto il cambiamento di paradigma proposto dalla famosa Convenzione europea.
Da una parte il disegno di legge nasce sull’onda della contingenza emergenziale non considerando dunque la violenza sulle donne come fatto strutturale e mancando quindi di una concezione di femmicidio come violenza su una donna in quanto tale (come sottolineato dalla ricerca sociologica e criminologica negli ultimi decenni), dall’altro la caratterizzazione della donna come soggetto debole legittima e giustifica un modello di protezione da parte dello Stato basato sul controllo, violando apertamente quanto affermato dalla Convezione di Istanbul nel capitolo sulla prevenzione e contrasto della violenza di genere e cioè di non considerare le donne vittime di violenza come soggetti deboli ma soggetti resi vulnerabili dalla violenza subita.
Questa lettura della violenza inoltre farebbe prevalere nell’intento del legislatore l’interesse prioritario per gli aspetti di tutela e protezione e non punterebbe abbastanza il focus sull’obbligo da parte dello Stato italiano di rimuovere gli ostacoli esistenti al pieno godimento da parte delle donne dei loro diritti fondamentali.
La Convenzione di Istanbul infatti si richiama fortemente al fatto che la violenza di genere non va affrontata in primis come fenomeno criminale che implica allarme sociale (secondo questa concezione sarebbe in primo piano non la donna con i suoi diritti, ma la società) ma in quanto violazione dei diritti individuali delle donne, e l’intervento degli Stati dovrebbe essere direttamente orientato a combattere gli aspetti culturali, le concezioni stereotipate e a rimuovere gli ostacoli che ne pregiudicano il pieno godimento dei diritti.
In questo senso quindi l’introduzione della legge N.93 inserita dall’esecutivo nel generico pacchetto sicurezza sembra confermare l’ambiguità di fondo della discussione che ha portato alla sua nascita.
Uno spettro si aggira poi in questi ultimi mesi per l’Italia rinforzato dai movimenti cattolici ultra conservatori e da produzioni letterarie, blog, siti a modello di: ‘Sposati e sii sottomessa”, il DDL Pillon (dal nome del cattolico ultraconservatore suo estensore), e il DDL Poli suo omologo, Disposizioni in materia di tutela dei minori nell’ambito della famiglia e nei procedimenti di separazione personale dei coniugi.
Se passassero favorevolmente l’iter legislativo, tali disegni comporterebbero una chiara retrocessione da principi che faticosamente si è cercato di costituire negli ultimi anni.
La critica che ne fa la giurista Silvia Belloni (2018) è la seguente:
Viene innanzitutto modificato il reato di calunnia sancito dall’art. 368 c.p. con la introduzione della sanzione/pena accessoria (non è affatto chiaro) della sospensione della potestà genitoriale (dal 2013 sostituita dalla responsabilità genitoriale, ma nel ddl si parla ancora di potestà…) se il reato è commesso da un genitore a danno dell’altro.
Evidente appare l’intento di disincentivare denunce per reati commessi in ambito familiare, con la chiara conseguenza che se le donne hanno ora mille resistenze ad intraprendere azioni giudiziarie per le ipotesi di violenza subita, ne avranno domani ancora di più. Perché infatti prevedere una pena accessoria così incisiva solo in ambito familiare? Vale di più una falsa denuncia in famiglia che per esempio fra colleghi o in altri contesti?
Si chiede inoltre la modifica del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi previsto dall’art. 572 c.p.p. (che assumerà il titolo di “maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli”, con esclusione appunto dei conviventi).
Le pene edittali sono ridotte, l’imputato può risolvere il processo con la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità (utilizzata per esempio per la guida in stato di ebbrezza), vengono punite solo le ipotesi di violenza fisica e psichica (con esclusione delle condotte caratterizzate da violenza economica, psicologica e sessuale attualmente sanzionate) e viene introdotto il requisito della sistematicità dei maltrattamenti.
La proposta fa terra bruciata delle numerose modifiche legislative che hanno portato all’attuale norma incriminatrice a tutela di familiari e conviventi, del tutto dimenticando che le condotte maltrattanti sono caratterizzate dal cosiddetto ciclo della violenza nel quale si alternano fasi molto aggressive a fasi di riavvicinamento e riappacificazione, assolutamente incompatibili con la “sistematicità” delle azioni che la norma imporrebbe (con ciò mettendo a rischio ovviamente l’accertamento della responsabilità penale nel processo).
A completare il quadro, anche il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare previsto dall’art. 570 c.p. viene infine stravolto, analogamente al reato di maltrattamenti, con la riduzione delle pene edittali, la possibilità di definire il giudizio con la sanzione sostitutiva dei lavori di pubblica utilità e, udite udite, la introduzione di una nuova condotta delittuosa.
Si legge infatti nella proposta che la norma punisce anche chi «attua comportamenti che privano i figli della presenza dell’altra figura genitoriale». Ecco riapparire il tema delle condotte alienanti che assurgono al rango di reato, punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032. Fedele alle premesse annunciate nella relazione introduttiva e in linea con il ddl Pillon, il ddl 45 svilisce il fenomeno della violenza in famiglia; colpisce, attenua e in alcuni casi azzera ingiustificatamente le garanzie e le tutele che le norme incriminatrici avevano negli anni conquistato a favore delle donne vittime di reati”
Il DDL Pillon, poi introducendo una fantomatica e irrealizzabile bigenitorialita perfetta (in una grande città soltanto gli spostamenti da un punto all’altro ne rappresentano un ostacolo insormontabile e cosa più grave non si tiene assolutamente in conto più di 50 anni di ricerca scientifica nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva e sui bisogni dei bambini nelle diverse fasce di età) e introducendo la mediazione familiare obbligatoria (quindi anche in caso di famiglie con partner abusante e maltrattante) di fatto non farebbero altro che aumentare a dismisura i motivi di conflittualità e di attrito tra persone in una situazione già critica rendendo di fatto più sofferente e difficile il processo di separazione.
In sostanza dunque si tratterebbe di un vero arretramento rispetto ai principi e alla direttive espresse dalle varie Convenzioni, e il riproporsi di un modello tradizionale e stereotipato di famiglia.
CAPITOLO 2. DAL SOCIALE AL PERSONALE: QUADRI INTERPRETATIVI DELLA VIOLENZA DI GENERE
2.1 La matrice del femmicidio: la violenza di genere
Partiamo da una definizione: “E’ violenza contro le donne, ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della volontà” (Art 1 Dichiarazione ONU sull’eliminazione della violenza contro le donne 1993).[12]
La violenza di genere dunque si esprime attraverso molteplici e diversificate modalità:
– Violenza Fisica: è quella immediatamente percepibile e più studiata, è caratterizzata da ogni genere di minaccia o azione fisica di fare del male, può essere sia diretta prevedendo atti fisici, come pugni, schiaffi, colpi, ecc., che indiretta, rivolgendosi a persone, animali, cose care alla vittima.
Questa forma è particolarmente subdola perché piega la resitenza dell’offesa, i segni fisici, lividi ed escoriazioni costringono a portare sul corpo il ‘marchio’ dell’aggressore, e le storie delle donne uccise raccontano come spesso sia il primo atto di tali fenomeni criminali.
– Violenza Psicologica: è una delle forme più insidiose di controllo e prevaricazione perché può assumere significati diversi a seconda del contesto e non essere immediatamente riconosciuta da chi la subisce. È caratterizzata da frasi, osservazioni, atteggiamenti sprezzanti e denigratori che hanno lo scopo di ledere l’immagine dell’altro, renderlo oggetto, privarlo della dignità e della sua individualità, è spesso sfumata e dai contorni non ben definibili e a differenza di quella fisica (che spessissimo precede) non rappresenta carattere occasionale, ma stabile e duraturo all’interno di una relazione. La psichiatra Hirigoyen (2005) ha studiato le tappe attraverso le quali questa forma di violenza si estrinseca, a partire dalla prima, il controllo nella quale l’altro viene fatto oggetto di sorveglianza e di dominio passivo, può comprendere sia i comportamenti, che il modo di vestirsi, parlare, manifestarsi fino addirittura arrivare al controllo sulla vita professionale e sui pensieri, con lo scopo dunque di appropriarsi totalmente della vita dell’altro. L’isolamento, è la seconda tappa, le donne sono ostacolate nella possibilità e nella libertà di avere relazioni con altri al di fuori del persecutore e spesso vengono lese perfino nella possibilità di avere a disposizione mezzi di comunicazione come il cellulare, la persona viene separata dalle sue relazioni affettive e dalla possibilità di ricevere aiuto e conforto. Nelle fasi successive la gelosia patologica e la molestia assillante prendono ulteriormente possesso della vita della donna, alla quale possono essere imputate intenzioni e comportamenti frutto però non tanto del dato reale ma che svelano l’insicurezza e il tentativo del violento di riparare la sua scarsa autostima. Alla situazione che viene così a crearsi si aggiungono poi le critiche sprezzanti, le umiliazioni, le intimidazioni con lo scopo di soggiogare l’altro e fargli paura, impedirgli una qualunque autonomia e possibilità di ribellione. L’indifferenza alle richieste affettive e le minacce rappresentano le ulteriori fermate di questo percorso nella violenza psicologica, l’asimmetria della relazione e le verbalizzazioni violente porterebbero la vittima a subire per le temute conseguenze per se e per i suoi cari, spesso il violento minaccia anche di uccidere se stesso, inducendo dunque nella vittima ulteriore destabilizzazione e senso di colpa.
– La violenza economica: si riferisce al mantenere o costringere una donna in condizione di non autosufficienza econonomica, mediante ricatti, pretese, limitazioni e varie forme di controllo sul suo denaro, compreso il licenziarsi per non pagare gli alimenti e le umilianti trattative per averlo.
– La violenza sessuale: si è soliti pensare a questo tipo di violenza come atto provocato da estraneii ma i dati ci dicono che la sua frequenza compare anche in situazioni di coppia seppure sia difficile da dimostrare a causa delle condizioni del legame in se che prevedono ovviamente una pratica della sessualità. Fino a diversi decenni fa si parlava a questo proposito di ‘doveri coniugali’ in questo senso quindi una aperta negazione dei desideri e dei tempi della donna, l’eventuale violazione dei quali non prevedeva nessun tipo di censura o intervento. Per violenza sessuale attualmente ci si riferisce a tutti quegli atti, imposizioni, comportamenti in cui non vi sia esplicito consenso della persona e che vengono visti come degradanti e non rispettosi della propria individualità, includendo anche quelli che avvengono dentro una relazione.
– Stalking: Galeazzi e Curci (2003) ne danno la seguente definizione “una serie di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza, alla ricerca di un contatto e di comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti”. Include tutti quegli atti (telefonate, visite, messaggi, inviti) volti a limitare la libertà dell’altro e ad imporre la propria presenza. Recentemente, in Italia è stato introdotto il DL 23 Febbraio 2009 N. 11 (successivamente convertito nella legge N. 38 che ha introdotto il reato di atti persecutori) che prevede la reclusione da 6 mesi a 5 anni per chi se ne rende colpevole.
– Mutilazioni genitali femminili: secondo i dati UNICEF ogni anno, 3 milioni di bambine vengono sottoposte a tale orribile pratica che viene considerata a tutti gli effetti una grave forma di violazione dei diritti delle donne, un attentato alla loro salute riproduttiva e una forma di violenta discriminaione. I motivi addotti all’esecuzione di tale violenza sarebbero i seguenti:
- Ragioni sessuali: soggiogare o ridurre la sessualità femminile
- Ragioni sociologiche: es. iniziazione delle adolescenti all’età adulta, integrazione sociale delle giovani, mantenimento della coesione nella comunità
- Ragioni igieniche ed estetiche: in alcune culture, i genitali femminili sono considerati portatori di infezioni e osceni
- Ragioni sanitarie: si pensa a volte che la mutilazione favorisca la fertilità della donna e la sopravvivenza del bambino
- Ragioni religiose: molti credono che questa pratica sia prevista da testi religiosi.
In Italia questo problema è particolarmente sentito anche perché sovente si ritrovano nei contesti sanitari donne che devono affrontare le conseguenze fisiche di tali atti brutali e perché nelle culture che la praticano può essere svolta abusivamente anche nel nostro paese, fermo è il richiamo alle gravi conseguenza di natura psicologica e fisica che per le bambine che vi vengono sottoposte e in Italia tale pratica è fortemente avversata.
La violenza di genere può incidere dunque su tre grandi aree della vita della donna, salute, sviluppo professionale/economico, benessere dei figli.
1) SALUTE
La ricerca scientifica ha dimostrato che convivere con un partner violento può avere un impatto profondo sia sulla salute psichica che su quella fisica della donna, essere vittima di violenza oltre alle conseguenze mediche dirette (le lesioni, traumi, malattie) rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di una cattiva salute nel futuro e di comportamenti a rischio tra cui fumo, sedentarietà, abuso di alcool e di droghe.
Tra le conseguenze maggiormente studiate legate alla violenza sulle donne, si può citare la Sindrome di Stoccolma Domestica (DDS) e la Sindrome della donna maltrattata (BWS).
Nella prima (DDS) la donna sottoposta ad un dominio pieno o a una restrizione della propria libertà può arrivare a provare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore come strategia di coping per fronteggiare e sopravvivere alle violenze subite, e al fine di garantire la sua sopravvivenza e/o quella dei suoi figli. Secondo Reale (2011) queste donne arrivano a convincersi che l’unico modo di sopravvivere sia quello di rimanere fedeli e vicine al proprio abusante.
La sindrome della donna maltrattata (BWS) è stata studiata molto nella letteratura, la Walker (1979; 1992) evidenzia come sia estremamente comune nelle donne gravemente abusate. Questa sindrome si può collocare all’interno del così detto ciclo della violenza e può essere spiegata dal paradigma dell’impotenza appresa.
Nella prima fase la donna si trova in una situazione di stress caratterizzata dalla percezione di un pericolo imminente che comporta l’avvio dell’espressione manifesta della rabbia, si dice in questo caso che la donna avverte come di “camminare sulle uova”. In questo momento la donna mette in atto tutta una serie di comportamenti tampone per prevenire il comportamento avverso, ma inevitabilmente tali sforzi risultano vani.
Alla tensione segue il vero e proprio episodio violento, e la tensione accumulata si risolve in un maltrattamento che non è più possibile evitare (il pericolo di uccisione in questo caso è al suo massimo, da qui, tutte le precauzioni e gli inviti a non accettare il famoso ‘ultimo appuntamento’).
L’esito della violenza agita e il consumo della rabbia accumulata comportano come conseguenza l’attivazione di tutta una serie di misure riparative tra le quali promesse, pianti, richieste, manifestazioni di disponibilità al cambiamento. Questo è il momento in cui si presentano spiegazioni, razionalizzazioni e minimizzazioni dell’accaduto.
Alle scuse e buoni propositi segue una fase di così detta ‘luna di miele’, la relazione sembra riprendere nel modo più positivo e simile ad un innamoramento, l’uomo è sensibile e attento ai bisogni della partner, senza tuttavia assumersi pienamente la responsabilità dell’accaduto, si mostra premuroso ed affettuoso, la donna sembra attenuare la valutazione della gravità degli accadimenti e conservare un immagine positiva del partner.
A conclusione della ‘luna di miele’ il ciclo inevitabilmente si ripete.
Secondo l’autrice, l’aggressione sporadica che si perpetua nel ciclo della violenza contribuisce a far credere alla donna di non avere ne’ le capacità di sottrarsi alla violenza ne’ di chiedere e di ricevere aiuto.
Seppure la Sindrome della donna maltrattata non rientra tra i disturbi classificati dal DSM 5, da alcuni autori (Kemp et al, 1991) essa sarebbe considerata come una particolare forma di Disturbo Post-Traumatico da Stress caratterizzato da un’hyperaraousal (persistente e continua aspettativa di pericolo), intrusione di ricordi traumatici e loro rievocazione, evitamento di stimoli o situazioni associati alla violenza, riduzione della reattività generale.
Le donne che vivono con un partner violento inoltre hanno difficoltà a proteggere se stesse da gravidanze indesiderate o da malattie, sono frequenti infezioni a trasmissione sessuale, tra cui l’HIV.
La violenza si può manifestare anche durante la gravidanza, aborto spontaneo, ritardo nell’assistenza prenatale, nascita di un feto morto, travaglio e parto prematuro, lesioni fetali, basso peso alla nascita sono presenti tra le conseguenze.
2) SVILUPPO PROFESSIONALE E ECONOMICO
Seppure la violenza non inibisce direttamente la possibilità di conseguire una situazione lavorativa essa può rappresentare una causa ovvia della difficoltà della donna di mantenere un lavoro, fare carriera e aumentare i suoi guadagni. La violenza è causa di cadute di produttività, di assenze per malattia e riduzione delle performance. E’ stato osservato inoltre che le vittime di violenza presentano redditi personali più bassi e più frequente ricorso all’assistenza sociale
3) IMPATTO SUI FIGLI
I bambini che assistono a episodi di violenza tra genitori presentano un rischio più elevato per una quantità di problemi affettivi e comportamentali, tra cui ansia, depressione, bassi risultati scolastici, basso livello di autostima, incubi, disturbi fisici, ritardi nello sviluppo.
La violenza assistita provoca inoltre nefaste conseguenza tra le quali l’innalzamento della soglia di tolleranza della violenza e l’apprendimento precoce di schemi di funzionamento disadattivi.
La violenza sulle donne rappresenta dunque un importante problema di salute pubblica con costi enormi stimati dall’EIGE (Istituto europeo per l’uguaglianza di genere) per il nostro paese di circa 17 miliardi di euro, una cifra enorme se confrontata anche con i risicati costi della prevenzione del fenomeno.
2.2 Provare a spiegare la violenza.
Per secoli se non per millenni si è stati portati a credere che le donne fossero docili, accomodanti passive e naturalmente votate al sacrificio e al lavoro di cura, (Sartori 2009) mentre i maschi volitivi, forti coraggiosi contribuendo in questo modo a costituire il regno delle donne in casa e nella famiglia e quello degli uomini “al lavoro, nella gestione del potere e della guerra”.
Da qui la nascita e lo sviluppo di quelle “associazioni implicite della mente” o stereotipi che tanto hanno contribuito alle resistenze ad un cambiamento di paradigma sul tema dei generi e dei loro attributi sociali e psicologici.
Secondo questo modello comune, le donne non usano parole brutte, parlano tanto, hanno tatto, sono gentili attente ai sentimenti interessate alla propria immagine, precise, accurate tranquille, manifestano un forte bisogno sicurezza, sono fedeli; i maschi invece risultano aggressivi, indipendenti, obiettivi, autorevoli, non sono preda di crisi, competitivi diretti, avventurosi, dediti agli affari, leader, indipendenti. Ruspini (2009) “Le identità di genere” cit., pp. 58-60.
Gli stereotipi dunque orienterebbero le aspettative in merito alla condotta maschile e femminile esercitando una funzione normativa nel prefigurare un certo tipo di comportamento come adatto per un sesso piuttosto che altro, Priulla (2013) ma in linea generale si osserva che al maschile venga attribuita sempre una connotazione maggiormente positiva.
Una bella mostra che è tenuta a Roma[13] qualche tempo fa, ora itinerante in Italia, racconta le storie di donne internate in manicomio durante il periodo fascista e le diagnosi di ingresso ben lungi dal descrivere quadri psicopatologici è rappresentativa di stereotipi e pregiudizi per i quali queste donne “non conformi” sono state internate e considerate anomalie della femminilità da curare e rinchiudere.
Sono “diagnosticate” vanitose, stravaganti, ciarliere, irriverenti, petulanti, piacenti, impertinenti, civettuole, e soprattutto indocili, non amanti della casa e dei figli ed altre simili e gravi ‘perversioni’.
Da qui la semplice considerazione di quanto gli stereotipi siano performativi del genere e le gravi conseguenze a non adattarvisi.
Del resto anche la ricerca sociale nel tempo ha confermato quanto la forte aderenza alle norme e ai ruoli di genere tradizionali correli positivamente con l’accettazione e la messa in atto di episodi violenti (Shen et al 2012; McCauley et al. 2013; McNaughton Reyes et al. 2015), nelle donne poi tale visione conformista dei ruoli sessuali sarebbe collegata ad un alta tolleranza dell’abuso fisico, sessuale ed emotivo (Faramanzi 2005), segno questo che i codici della violenza sono ben inseriti nel linguaggio e in un ideologia maschile che comprende concezioni di dominio, controllo sulle donne, atteggiamento conservatore e violento.
Accanto agli stereotipi un ulteriore elemento che contrasta una chiara presa in carico del fenomeno della violenza di genere sono i luoghi comuni ad esso legati (Panittieri 2006; Gracia, Herrero 2007), è comune affermare che la violenza domestica:
– è presente nei nuclei culturalmente ed economicamente svantaggiati
– è causata da occasionali perdite di controllo
– è causata dall’assunzione di droghe e alcool
– non incide sulla salute della donna (le botte del marito non fanno male)
– i partner violenti sono portatori di psicopatologie
– i partner violenti hanno subito violenza da piccoli
– alle donne che subiscono violenza piace essere picchiate,
come si può osservare tali affermazioni sono di facile riscontro nel sentito dire e nel parlare comune e mirano tutte a minimizzare e segmentare il fenomeno come a volerne confermare la occasionalità in contrapposizione con quanto evidenziato dalle convenzioni interazionali sul tema, evidenziando come nell’ambito della prevenzione il lavoro da fare sia ancora molto lungo e complesso.
Ma proviamo ad entrare più nello specifico di chi sono gli uomini abusanti e le loro vittime.
Deriu (2006) ha postulato che la violenza maschile sia frutto del tentativo di negare l’alterità dell’altro e colloca il fenomeno nell’antro della così detta relazione simbiotica.
L’instaurarsi di una relazione simbiotica (modalità relazionale caratterizzata dalla coincidenza dell’altro con se e una concezione di esso come propria appendice) provoca due importanti conseguenze, da una parte risulta impossibile ‘conoscere’ l’altro, i suoi bisogni, desideri, aspettative sono negati, dall’altra l’intolleranza a qualunque tipo di distanza o differenziazione.
Qualunque minaccia o intrusione al mantenimento dell’omeostasi simbiotica viene percepita come un attacco alla definizione di se e portare a stati di insofferenza e rabbia che sfociano in comportamenti violenti e distruttivi, “con la fine della simbiosi può andare in frantumi anche il senso di se e della realtà” (Deriu 2006).
Altri autori hanno spiegato la violenza maschile all’interno del paradigma della trasmissione intergenerazionale che si presenterebbe nelle famiglie abusanti.
In questo caso, la famiglia, oltre che rappresentare lo scenario dove le violenze avvengono costituisce anche un importante ruolo do formatore di modelli comportamentali, possono prevalere dunque rappresentazioni stereotipate del maschile del femminile e un bambino che vede picchiare la propria madre può acquisire tale modello vivendolo come ‘normale’ o almeno ‘possibile’ e altrettanto può avvenire per chi subisce tali maltrattamenti.
La violenza assistita è dunque uno dei più forti predittori di possibile sviluppo di schemi disfunzionali e violenti.
Un contributo molto interessante è quello proposto invece dagli studiosi della teoria dell’attaccamento che hanno provato a leggere il fenomeno alla luce degli stili disfunzionali di legame genitore-figli.
Fonacy (2001) collega il comportamento violento all’interno di un attaccamento D (Disorganizzato) caratterizzato dalla massima ambivalenza dato che il bambino deve risolvere il difficile enigma tra la ricerca della sicurezza e della vicinanza con un genitore e il timore verso il genitore stesso a causa dei suoi comportamenti violenti e imprevedibili “nella vita adulta la rappresentazione di se disorganizzata si manifesta come un enorme bisogno di controllare l’altro, gli uomini violenti devono stabilire una relazione in cui la partner serva da veicolo per gli stati intolleranti del se. Essi manipolano la relazione in modo tale da generare nell’altro l’immagine di loro stessi dalla quale non vedono l’ora di liberarsi, ricorrono alla violenza quando l’esistenza autonoma dell’altro minaccia questo processo di esteriorizzazione”.
Un contributo molto interessante è poi quello degli studiosi che hanno provato ad osservare delle tipologie e delle ricorrenze nel comportamento degli uomini violenti individuandone i profili.
Ebow nel suo “Theoretical consideration of vioelent marriage” ha studiato questi uomini e messo in luce 4 tipologie di aggressore domestico:
- il controllore: in questa tipologia prevalgono i rapporti di tipo utilitaristico, la persona usa gli altri per raggiungere i suoi scopi e da loro la colpa dei suoi insuccessi e frustrazioni, il timore più grande di questi uomini è quello di perdere il controllo e il dominio sui loro familiari e la violenza scaturisce proprio dalla messa in discussione della propria autorità,
- il difensore: prevale una modalità di rapporto di tipo manipolativo e difensivo, l’individuo tenta con ricatti e fino ad arrivare ad un vero plagio di convincere la partner di quanto essa abbia bisogno di lui, non permette l’autonomia dell’altro che viene vissuta come minaccia e dalla sudditanza che ne consegue ricava il suo potere,
- colui che cerca approvazione: caratteristica è la continua ricerca di conferme per la propria autostima e di dimostrazioni di approvazione e stima, secondo Vezzadini (2004) quando l’autostima del soggetto è bassa, per effetto della proiezione di istanze negative si viene a creare il corto circuito che porta alla profezia che si autoavvera e il soggetto aspettandosi un rifiuto agisce il comportamento violento,
- l’incorporatore rappresenterebbe la tipologia più pericolosa, cerca di costruire un rapporto simbiotico e fusionale con la partner arrivando a minacciarla e intimidirla anche pubblicamente e sul luogo di lavoro, la violenza di questo soggetto sarebbe proporzionale all’entità della minaccia, percepita come catastrofica perdita di se.
Accanto a questi studi si deve necessariamente citare il contributo di Isabella Betsos (2009) che discrimina tra le tipologie di uomo abusante:
- I narcisisti, come i ricercatori di approvazione risultano insofferenti alla critiche ma anche indifferenti ai bisogni dell’altro che vedono come un oggetto e non un ‘soggetto’, sono ipersensibili all’ammirazione e continuamente alla ricerca di attenzioni.
- Gli antisociali. Tipizza il quadro una grave incapacità di conformarsi alle norme sociali, una irresponsabilità e superficialità nel mantenere gli obblighi e le relazioni intime e soprattutto una pervasiva indifferenza ai sentimenti e alle emozioni altrui, associata a una grave mancanza di empatia e assenza di senso di colpa. Caratteristica persistente è l’irritabilità e l’acting out che ne deriva, è l’unico modo per questi individui di manifestare la propria tensione interiore.
- I Borderline, elemento dominante del quadro è l’instabilità e l’impulsività. Gli studiosi Hotlzworth-Munroe e Stuart (1994) hanno indivisuato 3 sotto modalità, di cui una chiaramente riferita a questo sottotipo, gli uomini aggressivi solo all’interno delle mura domestiche, gli aggressori dysphoric o borderline-batter che sono più aggressivi e violenti anche in contesti extra familiari e i generally violent e antisocial batter, uomini violenti e antisociali che presentano spesso anche precedenti penali.. I Borderline costruiscono relazioni tutto-nulla in cui l’idealizzazione e la svalutazione oscillano rapidamente.
- I perversi narcisisti, che esercitano il controllo attraverso il plagio e la menzogna e scarsamente ricorrono alla violenza brutale.
- I paranoici. Diffidenza, sospettosità e rigidità sono gli elementi fondanti, questi uomini arrivano ad essere dei veri e propri tiranni domestici, costruiscono relazioni improntate alla coartazione dei sentimenti e temono costantemente di essere traditi e ingannati, manifestando una vera e propria gelosia patologica. Sono fortemente ancorati a valori tradizionali e stereotipi di genere e gli agiti violenti sono frequenti se si sentono minacciati.
Per quanto riguarda invece il mondo femminile diverse sono le interpretazioni che sono state proposte per provare a spiegare le difficoltà per una donna di uscire da una relazione violenta.
Carver (2002) parla di diversi tipi di investimento, delle vere e proprie trappole che possono trattenere in un rapporto disfunzionale:
– l’investimento emozionale,- l’investimento sociale,- l’investimento familiare,- l’investimento economico,- l’investimento nello stile di vita- l’investimento nell’intimità.
Le persone ‘trattenute’ in un rapporto disfunzionale possono arrivare a costruire tutta una serie di aggiustamenti psicologici che tendono a far percepire la relazione come indispensabile e necessaria, la punta più estrema di questi aggiustamenti è rappresentata dalla sindrome di Stoccolma citata nel paragrafo precedente.
Nella Tabella alla pagina seguente invece si vuole inserire un’analisi dei fattori che possono rappresentare un impedimento alla separazione da un partner violento.
FATTORI COGNITIVI | Isolamento da stimoli |
Identificazione con il punto di vista dell’aggressore | |
Dissonanza cognitiva | |
Incapacità di abbandonare strategie di coping consolidate | |
Scarsa autoefficacia | |
Valutazione conseguenze abbandono peggiore della situazione attuale | |
Tentativo di proteggere i figli e/o se stessa da conseguenze peggiori | |
Sensazione di essere parzialemente responsabili delle situazioni di abuso | |
FATTORI EMOTIVI | Dipendenza emotiva |
Timore di ritorsioni | |
Senso di colpa | |
Apatia dovuta a trauma emozionale | |
Senso di impotenza | |
Speranza di cambiare il comportamento del parner | |
Timore di eventuali situazioni sconosciute o meno controllabili | |
FATTORI DI ORDINE PRATICO | Dipendenza economica |
Minacce da parte del partner | |
Presenza di figli e difficoltà nel mantenimento | |
Difficoltà burocratiche | |
Non disponibilità alloggio alternativo | |
Scarso sostegno sociale emotivo e strumentale | |
Fattori psicosociali | Paura del giudizio altrui |
Timore dell’abbanodono sociale | |
Timore di non essere creduta | |
Adesione a stereotipi di ruolo | |
Afesione a stereotipi di genere | |
Credenze familiari |
Anche Truminger nel suo lavoro “Marital violence, the legal solution” ha classificato i motivi che impediscono ad una donna di rompere la relazione:
- Negativo concetto di se;
- Fiducia che il marito possa cambiare;
- Mancanza di sostegni economici tali da garantire una autosufficienza;
- Presenza di bambini bisognosi del sostegno economico offerto dal padre;
- Concezione negativa della separazione e del divorzio;
- Impossibilità di lavorare per la presenza di bambini piccoli da accudire;
- Paura di non poter vivere da sole.
Tra i fattori comuni alle vittime di violenza non possiamo poi non considerare gli effetti deleteri della conseguenza delle violenze subite, che consistono in senso di se e identità carenti, sfiducia nei confronti degli uomini, bassa autostima, stress, isolamento emotivo ed economico.
Come già rilevato per gli uomini poi, una familiarità positiva per maltrattamenti e violenze in famiglia può contribuire allo sviluppo di dinamiche educative/formative legate ad aspettative normalizzanti della violenza.
CONCLUSIONI
Data la chiarezza della definizione dell’ONU riportata a pag. xx e il fermo richiamo delle Nazioni Unite, stupisce che dopo 25 anni, nel mondo, la violenza sulle donne sia ancora fenomeno massicciamente diffuso tanto che l’OMS attraverso una serie di ricerche effettuate a livello mondiale evidenzia che la percentuale di donne che hanno denunciato di essere vittime di violenza varia dal 10% al 69%, e che in Europa la violenza è la causa principale di morte o invalidità per le donna tra i 16 e i 44 anni. Come già osservato uno dei problemi sta nel fatto che la violenza sulle donne è un fenomeno antico, multifattoriale, e trasversale, presente in tutte le culture e in ogni classe sociale e condizione di reddito e di cultura.
Riprendendo la definizione dell’ONU e provando a fare chiarezza sulle origini di questa complessità si può affermare che: “tale violenza è una delle relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne… questa violenza è uno dei meccanismi sociali, cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette ad una posizione subordinata rispetto agli uomini”[14].
Il contributo dell’ONU riprende dunque un concetto molto importante e cioè quello di genere che stigmatizzando le teorie ‘biologiste/essenzialiste’ evidenzia come diventare uomini o donne sia qualcosa di più che un mero ordine di tipo genitale, il genere rappresenterebbe dunque la matrice sociale e culturale che ai sessi viene attribuita e quindi l’ordine in termini di adattamento alle aspettative sociali che ne consegue.
A questo proposito non si possono non citare gli studi della Butler (2007) sul carattere performativo del concetto di genere che partendo dalla differenza biologica si trasmuta in differenza sociale e culturale che viene successivamente riattribuita ai sessi come fatto ‘naturale’. L’antropologa G. Rubin (1975) ha dato invece una interpretazione “storica” di questa naturale distinzione evidenziando come il capitalismo con la sua rigida divisione dei ruoli sia l’erede di una lunga tradizione dove le donne, “non ereditano, non comandano, non parlano con Dio”.
In sostanza dunque la violenza di genere e il femminicidio si iscrivono nei rapporti di forza insiti nella società, nelle concezioni stereotipate del femminile e del maschile che governano l’ordine dei rapporti sociali e si intersecano con i fattori personali di salute mentale e sviluppo anch’essi di importanza fondamentale nel tentare di spiegare questo orribile fenomeno, vecchio come il mondo.
Nello scrivere questo lavoro sono molto grata alla possibilità che mi sono data, scegliendo questo tema, di leggere e approfondire questioni e studi che da sempre formano la mia visione ‘di parte’ sul mondo e di aver compreso che se da un lato c’è tantissimo da fare e la complessità del problema fa sentire la limitatezza dei propri mezzi, dall’altro c’è un mondo di donne e uomini che con coraggio e impegno si occupano di questi argomenti e che fermentano il diffondersi di idee e prassi, che formeranno quel pensiero di oggi e di domani che vedrà infine sconfitta la cultura della violenza
BIBLIOGRAFIA
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- BERTOLO (2011) in La rappresentazione della violenza contro le donne dall’Europa all’Italia” CLEUP
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- BROWNMILLER (1990) Against or will: men, women and rape. XI Ed, NY
- BUTLER (2007). Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity. Routledg
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- [1] Abbiamo un piano: Piano Femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. www.cospe.org – nonunadimeno.wordpress.com
- [2] E’ possibile visionare tutti i documenti legati al caso alla pagina www.campoalgodonero.org.mx/.
- [3] Si veda: National trends in intimate partner omicide 1974 – 2000 in Statistics Canada – Catalogue n. 85-002-XIE vol.22 n.5.
- [4] Rapporto Eures–Ansa 2009, L’omicidio volontario in Italia
- [5] Tutte pubblicate in www.casadonne.it; Karadole C., Femminicidi in Italia nel corso del 2006: indagine sulla stampa, Casadelle donne, 2007; Giari Sonia, La mattanza: femminicidi in Italia nel corso del 2007,
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- [6] Si noti l’uso del termine Femicidio nell’accezione che ne da la sociologa Russell.
- [7] I femminicidi in Italia quaderno del 2016. Pubblicazione Casa delle Donne Bologna.
- [8] http://www.un.org/womenwatch/daw/cedaw/ e http://www.cidu.esteri.it/resource/2016/09/48434_f_CEDAWmaterialetraduzione2011.pdf
- [9] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, nota anche come Istanbul è stata adottata il 7 aprile 2011 a Istanbul dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Hanno partecipato all’elaborazione di tale Convenzione anche il Canada, gli Stati Uniti, la Santa Sede e l’Unione Europea, Serie dei Trattati del Consiglio d’Europa n. 210.
- [10] Consiglio d’Europa, Link Ratifiche http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/ChercheSig.asp?NT=210&CM=1&DF=&CL=ENG. :
- [11] http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/franca-viola/
- [12] Definizione tratta dalla Conferenza Mondiale ONU di Vienna 1993
- [13] I fiori del Male: donne in manicomio nel regime fascista. Casa della Memoria e della Storia
- [14] Dichiarazione ONU Risoluzione dell’Assemblea Generale 1993