La ricaduta nell’uso di sostanze da parte delle persone che presentano una dipendenza è un evento piuttosto comune, al punto che può essere considerato una componente costante nella storia naturale dei Disturbi da Uso di Sostanze e del loro trattamento.
La persona spesso tende a “raccontare” la ricaduta come “casuale” o determinata dalle pressioni sociali: “… mi sono trovato di fronte al solito bar…”, “…ho incontrato un vecchio “amico” e non ho resistito”. Se l’attribuzione di responsabilità al caso o ad altre persone può essere vista come un tentativo di attenuare i sensi di colpa e di impotenza, numerosi studi hanno dimostro come la ricaduta abbia una sua storia, non sia quasi mai un evento casuale, abbia dei correlati psicologici e biologici.
La ricaduta: aspetti psicologici
Nel 1985 Marlatt & Gordon pubblicarono un testo rimasto basilare nella comprensione dei processi psicologici sottendenti la ricaduta .
Questi Autori affermano che: la ricaduta nella maggior parte dei casi non è un processo casuale. La persona dipendente compie una serie di “atti apparentemente insignificanti” che progressivamente la avvicinano alla sostanza, gli stimoli ambientali hanno un importantissimo ruolo nell’innescare e mantenere questa condizione, tuttavia non tutte le persone reagiscono a tali stimoli nello stesso modo, vi è infatti una grandissima variabilità individuale.
Anche situazioni di malessere psicologico possono innescare il processo di ricaduta come pure situazioni stressanti non correlate alle sostanze d’abuso.
Gli “atti apperentemente insignificanti” rappresentano un cammino che qualora non venga compreso e interrotto porta prima o poi la persona in una “Situazioni ad Alto Rischio”.
Quando la persona non riconosce la situazione ad alto rischio o non ha la forza di sottrarvisi o allontanarla cioè, se fallisce il processo di fronteggiamento di tali situazioni, la persona assume la prima dose di sostanza, innescando l’“effetto di violazione dell’astinenza”, cui conseguono sentimenti di fallimento e di incontrollabilità della situazione, e, quasi inesorabilmente la ricaduta completa.
Può apparire stupefacente che le condizioni emotive e i conflitti interpersonali siano situazioni a rischio più frequenti che le occasioni, o le pressioni sociali. In realtà queste ultime sono spesso portate dai pazienti perché più facili da spiegare, rispetto a movimenti psichici di cui hanno talora poca dimestichezza, e quasi sempre grande pudore.
Il rafforzamento della capacità di gestire le situazioni emotive e i conflitti interpersonali diventa quindi obiettivo centrale del percorso di cambiamento.
E’ interessante notare come spesso le persone pur ricordando quali siano le loro specifiche situazioni ad alto rischio finiscano inevitabilmente ad avvicinarsene e quindi è spesso comune osservare che le tappe delle ricadute siano sovente le medesime.
La ricaduta: aspetti biologici
Secondo la Organizzazione Mondiale della Sanità il craving è il desiderio intenso e incontrollabile di sperimentare gli effetti di una sostanza psicoattiva usata in passato. Un tempo ritenuto espressione della sindrome di astinenza, il craving compare per lo più a seguito di uno stimolo evocante la sostanza, ma talora anche apparentemente ”a ciel sereno”; tende ad attenuarsi col tempo, ma può ricomparire anche dopo anni di astinenza.
La validità di questo modello sperimentale è legata al fatto che le strutture cerebrali responsabili della ricerca delle sostanze psicoattive (ed in generale della gratificazione) sono filogeneticamente antiche, gli effetti della sostanza hanno preso il posto di funzioni mentali fondamentali: la gratificazione indotta dalla sostanza diviene parte del funzionamento mentale, modificandolo.
Tutto ciò spiega la complessità del lavoro nel campo delle dipendenze, e la necessità di percorsi di cura appronditi e intensivi.
Il Centro Diurno “Stella Polare” rappresenta un’esperienza per certi versi originale nella cura della tossicodipendenza, partendo dalla convinzione che tale patologia, caratterizzata da una sostanziale complessità, debba essere affrontata con un approccio bio-psico-socio-educativo
Il trattamento proposto dal Centro Diurno “Stella Polare” si colloca all’interno di un modello di riferimento terapeutico riabilitativo chiamato “biopsicosociale”, in cui la una presa in carico della persona riguarda 3 grandi cardini: gli aspetti medici e biologici, psicologici, e quelli educativi.
Affinché si realizzi tutto ciò è naturalmente necessaria la presenza di un’équipe multi disciplinare dove ciascuno secondo la propria professionalità e le proprie specifiche formazioni possa prendere parte al processo.
Il primo obiettivo è proprio quello di aiutare queste persone a ricostruire e riallacciare i fili della propria storia e della propria sofferenza, aiutarli a elaborare in modo più evoluto i messaggi provenienti dall’ambiente, e costruire degli obiettivi di vita a breve, medio e lungo termine concretamente realizzabili.
Un altro obiettivo importante per i nostri pazienti è quello di sviluppare la capacità di tollerare la frustrazione, di posticipare la soddisfazione di un bisogno senza ricorrere al meccanismo tipico dell’ “acting out” e di apprendere dall’esperienza maturando la capacità di fare un adeguato esame di realtà.
Un ulteriore approfondimento riguarda l’intervento sulle risorse, sappiamo che le persone pur avendo intrapreso un percorso disfunzionale hanno mantenuto seppure in periodi di tempo limitati un funzionamento accettabile, ed è importante per noi andare a scoprire quali sono le risorse che li hanno sostenuti, come si manifestavano e potenziarle.
Il secondo asse del trattamento è rivolto alle caratteristiche educative e sociali dell’intervento.
In primo luogo si lavora sulla comprensione, discussione e valutazione critica dei valori appartenenti alla sottocultura “della strada”, alla loro origine e funzione, alla loro capacità di deformare aspetti importanti della percezione della realtà sociale.
È molto importante il passaggio evolutivo verso un abbandono dell’ottica dell’omertà e l’apertura al dialogo e al confronto, che favoriscono anche lo sviluppo di un nuovo modo di “stare e di fare” all’interno della comunità aumentando quindi il senso di appartenenza alla stessa.
Contemporaneamente l’intervento dell’equipe di lavoro si focalizza anche sul contenimento delle spinte distruttive, attraverso la promozione della capacità di comprendere e rispettare le regole della vita comune, la trasgressione delle quali è evidenziata da una sanzione, la cui funzione è finalizzata alla “responsabilizzazione e presa in carico totale delle proprie azioni, di impegno personale, e di definizione dei propri confini”.
Una parte importante del lavoro è poi riservata alla identificazione e alla verifica degli obiettivi di crescita, stabiliti direttamente dal paziente ed analizzati di volta in volta con l’operatore di riferimento e con il gruppo.
Gli strumenti del nostro intervento riguardano in primo luogo la relazione terapeutica e lo sviluppo di un’alleanza nell’intraprendere un cammino di cambiamento insieme. Altro elemento è il gruppo, che rappresenta una possibilità di scambio molto ricca.
Il gruppo permette alle persone di identificarsi, di riconoscersi, stimola la solidarietà e facilita anche l’espressione dei conflitti e delle dinamiche interne.
Il presupposto teorico rispetto alla tematica del cambiamento si ispira alle ricerche di Prochaska e di Di Clemente (1992) sulla ruota del cambiamento, in cui si evidenzia che ciascuna persona attraversa una serie di stadi diversi nella propria motivazione e disponibilità a intraprendere un percorso di sviluppo.
Tale impostazione comporta implicazioni molto importanti, sia per quanto riguarda il progetto terapeutico che è personalizzato e specifico per ciascuna persona, sia per quanto riguarda la possibilità di ricaduta che viene considerata come momento utile per comprendere ed esaminare in positivo i meccanismi che alimentano la dipendenza.
Questi autori evidenziano che l’attitudine al cambiamento non è data una volta per tutte, ma richiede ripetuti e numerosi passaggi attraverso fasi di “non cambiamento “ o di “ambivalenza” , che si ripetono prima di ogni nuova “azione”.
Può infatti accadere che il paziente non sia cosciente di comportamenti a rischio (precontemplazione), oppure che pur essendo cosciente di questi problemi, non intenda in questo momento cambiarli (contemplazione). Ancora , il paziente può avere una percezione della propria capacità di affrontare tali situazioni (autoefficacia) irrealisticamente alta, o al contrario così bassa da essere “sconfitto” in partenza. In tutti questi casi, gli elementi di prevenzione della ricaduta vanno proposti in una veste “motivazionale” (38-39) .
Per intraprendere interventi di prevenzione della ricaduta è necessario dunque procedere in primo luogo ad una diagnosi motivazionale, valutando cosa il paziente è effettivamente disposto a fare ai fini di evitare la ricaduta.